Opinioni

Relativismo. Variazioni sul concetto di nazione

L’inizio del ventunesimo secolo vede sorgere nuove riflessioni sull’idea di nazione. Quella che sembrava una nozione generalmente accettata viene sottoposta a nuovi interrogativi dovuti in parte alla globalizzazione, alla nascita di nuove entità sovranazionali e, anche, ad un movimento di decentramento alla base. La problematica si svolge intorno alla definizione stessa della nazione e alla sua perennità, cioè ci si chiede se non viviamo per caso il suo tramonto.

A questo proposito, ci è sembrato interessante esaminare il pensiero di alcuni autori riguardo al concetto di nazione, e, dato che questa rivista si occupa di cultura italiana, inizieremo con un libro di Alberto Banti, La nazione del Risorgimento. In quest’opera l’autore cerca di stabilire che cos’erano la nazione e la patria per gli uomini del Risorgimento.

Banti fa notare che durante il Settecento la parola “patria”, in italiano, possedeva due accezioni preminenti: indicava il luogo dove si nasce, o donde si trae l’origine, il singolo paese, la città natale, o un più largo ambito territoriale (stato, area culturale): la Sardegna, Venezia, l’Italia, la Germania, l’Inghilterra. Oppure si riferiva ad un sistema politico-istituzionale al quale i sùdditi o i cittadini dovevano lealtà, quando era regolato da un buon principe o un buon corpo di magistrati.

La parola “nazione” invece ricopriva tre significati principali: nella sua accezione arcaica, ma registrata, si riferiva alla nascita, all’estrazione familiare o sociale, in forma derivata alla generazione di uomini nati da una medesima provincia o città (ritroviamo quindi il primo significato di “patria”), poi ad una collettività dotata di un habitus comune, di usi e costumi specifici. La collocazione territoriale non coincideva necessariamente con i confini di uno degli stati esistenti, sia in direzione localistica (si parlava di “nazione piemontese”, che non comprendeva né la Savoia né la Sardegna, sebbene facessero parte dello stato sabaudo, ecc.), sia translocale (la “nazione italiana”): si trova questo significato in Muratori, Bettinelli, Calepio, Baretti. Poi, a partire dall’inizio del Settecento, c’è un terzo campo semantico: la parola “nazione” si riferisce ad una comunità culturale italiana dotata di una lingua e di una letteratura comune.

Per illustrare la differenza tra cittadinanza e nazionalità Banti ricorre ad un aneddoto tratto da un articolo di Gian Rinaldo Carli pubblicato nel 1765 sul Caffè: in un caffè di Milano un tale Alcibiade aveva chiesto ad uno sconosciuto se fosse “forestiere” e l’interrogato aveva risposto di no. Alcibiade gli aveva chiesto se fosse di Milano e l’altro aveva risposto di nuovo di no. Sorpresa di Alcibiade e l’altro risponde:

“Sono italiano e un italiano in Italia non è mai forestiere come un francese non è forestiere in Francia, un inglese in Inghilterra, un olandese in Olanda e così discorrendo”

Ovviamente ci sarebbe da discutere sul significato della parola forestiero, e magari sulla differenza con straniero, ma è certo che ci troviamo di fronte ad una incertezza illuminante.

Da notare che Alcibiade non nega la realtà di una comunità in qualche modo “italiana” (di cultura o altro), ma privilegia spontaneamente l’aspetto localistico. E la reazione di Alcibiade preannuncia, ma preannuncia soltanto, l’idea di nazione. Non significa che non esiste una collettività italiana, almeno a livello inconscio, ma che essa non ha esistenza politica e che non se ne sente nemmeno la necessità, almeno per il momento.

Secondo Banti, a partire dagli anni ’90 del Settecento si produce un profondo mutamento dovuto alla rivoluzione francese e all’arrivo in Italia dell’esercito di Bonaparte. I filorivoluzionari italiani importano il vocabolario francese. Nel francese del periodo rivoluzionario, la parola “nazione” descrive la comunità fondamentale da cui discende la legittimità delle istituzioni. Si parla quindi di stato nazionale, d’assemblea nazionale ecc., di volontà, e d’indipendenza della nazione. C’è un nesso determinante tra la cittadinanza e la nazionalità. La parola “patria” si trova permanentemente collegata al termine di “nazione”. Patriottismo indicava specificamente “amore della patria democratica e repubblicana”.

In Italia si parla di “nazione piemontese”, per esempio, “napoletana”, “cisalpina”, nel nuovo significato della parola. Però si parla sempre più frequentemente anche di “nazione italiana”. Si comincia a pensare ad uno stato unitario italiano, presumendo dunque l’esistenza di una nazione italiana e si cerca di individuarne i caratteri. Si riprendono discorsi settecenteschi, riconoscendo l’esistenza di un “genio della nazione italiana” i cui caratteri principali sono la discendenza storica dalla romanità, un sangue comune, una comune religione, medesimi costumi, la stessa lingua, una precisa e coerente collocazione geografica: elementi che restavano allora allo stato di rapidissimi cenni.

L’idea della nazione italiana diventerà poi un tema cruciale del lavoro di numerosi intellettuali italiani. Un importante lavoro viene svolto da letterati, artisti, poeti, narratori. Il tema della nazione (essendo mutate le condizioni politiche) si proietta nello spazio della produzione letteraria e artistica. Particolarmente tra gli ex giacobini esso si salda con la tradizione intellettuale italiana. Importante, per esempio, tra l’altro, il ruolo di Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, nei Sepolcri, nella Prolusione del corso all’Università di Pavia.

I giovani vissuti nella prima metà dell’Ottocento scoprono la nazione nel suo nuovo significato, e qualcosa cambia con la generazione successiva, il mito si diffonde, i familiari e talvolta gli insegnanti diventano talvolta le fonti dei primi messaggi di ordine nazional-patriottico. Ma l’impatto decisivo è la letteratura. Non occorre qui dilungarci sulle le iniziative dei gruppi settari e della letteratura patriottica e sui modi (e i livelli) della sua penetrazione. Chi è interessato legga il libro di Banti.

Ma insomma, dice quest’ultimo, perché questo successo? Perché, nonostante le diversità politiche e filosofiche c’è un fondo comune. L’autore discute le note tesi di Chabod secondo il quale, “tra il movimento nazionale germanico e quello italiano, nonostante talune affinità e somiglianze, c’è, sostanzialmente un’assoluta diversità, quando non addirittura opposizione”. Secondo Chabod, dice Banti, “nella tradizione risorgimentale italiana l’idea della nazione come frutto di un empito volontaristico, di una scelta consapevole, di un patto collettivo, aveva prevalso sull’idea dell’ascrizione etnica, dell’appartenenza a una comunità di destino, naturalisticamente strutturata dalla terra e dal sangue, tipica, invece, del movimento nazionale tedesco”. Ma egli non è d’accordo. Certo, negli scritti del “canone” (chiama così l’insieme dei testi di riferimento) ci sono dei patti di fondazione, per esempio Marzo 1821 di Manzoni, le Fantasie di Giovanni Berchet e la Battaglia di Legnano di Salvatore Cammarano contengono la descrizione di una comunità di guerrieri legati da un giuramento. Ma, sottolinea giustamente il patto di fondazione presuppone l’esistenza di una nazione .

Nel Marzo 1821 di Manzoni, la nazione viene definita: “una d’arme, di lingua, d’altare,/ di memorie, di sangue e di cor”, l’unità d’armi essendo il solo elemento che non preesiste al patto. Berchet, spiegando le premesse del giuramento di Pontida, dice:

Perché ignoti che qui non han padri
Qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lo anco non diede a fruir?
La sua parte a ciascun fu divisa.
È tal dono che basta per lui.
Maledetto chi usurpa l’altrui,
Chi ‘l suo dono si lascia rapir!”.

Anche qui il sangue, la comune tradizione, il comune linguaggio, sono elementi costitutivi della comunità nazionale. E nella Battaglia di Legnano di Cammarano, quando Rolando tenta di convincere i comaschi alleati col Barbarossa di raggiungere la Lega:

“… Ed Itali voi siete?
Ben vi scorgo nel sembiante
L’alto ausonico lignaggio,
Odo il numero sonante
Dell’Italico linguaggio,
Ma nell’opre, nei pensieri
Siete barbari stranieri!.

Da notare l’inversione del rapporto tra l’appartenza nazionale e il patto politico. Anche Alfieri nel suo Misogallo descrive una nazione definita dalla geografia, la lingua e i costumi, unità “che la Natura ha sì ben comandata”.

Banti passa ad esaminare Mazzini per il quale le nazioni, esistono ab aeterno. I popoli hanno tratti comuni, la stessa lingua, tendenze uniformi, stessa tradizione storica, innate spontanee tendenze e per l’Italia una cornice geografica fatta apposta per scandirne la separatezza.

Anche Gioberti parla di stirpe: “v’ha… un’Italia e una stirpe italiana, congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre” che dopo secoli di decadenza ha il diritto di rinascere e di avere una propria espressione statale. Il popolo italiano non è ancora che un desiderio, un nome e non una cosa.

Quindi la nazione sembra assumere i tratti di una comunità etnica i cui elementi sono insieme naturali e culturali. L’aspetto naturale sembra la pietra angolare della costruzione mitografica compiuta dagli intellettuali nazional-patriottici. Nei testi referenziali del “canone” questo aspetto appare piuttosto enunciato che esplorato a fondo. Viceversa nei lavori di carattere letterario, viene sottoposto ad un importante trattamento simbolico. La patria è una donna (eredità del triennio giacobino), una madre. Poi si passa ad un reticolo di nessi familiari, alla catena delle generazioni.Questa parentela ha un suo spazio, “retaggio” della comunità (Berchet, Manzoni). La terra è più di uno spazio fisico, c’è una relazione privilegiata tra un popolo e la sua terra e quando ne viene allontanato risente dei tormenti dell’esilio.

Ma non ci sono soltanto legami di sangue e di terra, non meno importante è il vincolo della memoria storica., la storia, basti pensare a Foscolo e alle sue Ultime lettere di Jacopo Ortiz , e ai Sepolcri. Anche Mazzini fa ricorso alla storia. La tematica risorgimentale ruota intorna all’oppressione della nazione italiana da popoli o tiranni stranieri, alla divisione interna degli italiani, all’onore nazionale leso dalla straniero e agli eroici quanto sfortunati tentativi di riscatto. Ma quel che ci interessa oggi è soffermarci ancora sul problema del concetto di nazione che si evince dai protagonisti del Risorgimento e il dissenso tra Banti e Chabod. È chiaro che la dottrina volontaristica non basta per definire la nazione del Risorgimento. Certo, i referendum erano chiamati a sancire le annessioni (o “riunioni”), ma le invettive contro i “traditori” che si opponevano al movimento nazionale o non lo assecondavano, indicavano chiaramente che la nazione era preesistente perché non si può tradire qualcosa che non esiste. D’altronde vediamo più da vicino questa nozione volontaristica.

Rosario Romeo ha evocato la contrapposizione: “fra la dottrina “francese” della nazionalità, fondata sulla libera manifestazione della volontà dei cittadini aderenti a una determinata collettività politica, e la dottrina “germanica”, che sarebbe invece di carattere pesantemente naturalistico e deterministico , con il suo richiamo alla lingua e alla storia comune come elementi nei quali soprattutto si verifica la realtà delle nazioni. Ma non è difficile scorgere come la prima delle due concezioni rispondesse alle esigenze di uno Stato e una civiltà espansionistica come quella francese, tendente all’assimilazione di gruppi etnici di origine diversa via via annessi alla sua crescente sfera di potere, mentre la dottrina “germanica” mirava essenzialmente, e sopratutto nella sua originaria formazione herderiana, a garantire l’autonomia culturale di comunità prive di una efficace dimensione politica ed esposte dunque al rischio di perdere la propria identità nel contatto con gruppi etnici dotati di maggior vigore culturale e politico: nel che sta la ragione del ruolo svolto da quella dottrina nel risveglio dei minori popoli slavi dell’Europa centro-orientale”. Rosario Romeo ci aiuta a capire quanto funzionali queste definizioni siano agli interessi di chi le propone. Si è a lungo insistito sui pericoli della concezione “tedesca”, che può giustificare una politica imperialistica. Ma vediamo che anche la definizione “francese” rischia di sfociare in un espansionismo, quando la dottrina “tedesca”, in determinate circostanze, può servire ai piccoli per difendersi dai grandi. Comunque nessuna delle due ci sembra soddisfacente, e dobbiamo crearne una e non lasciarcela imporre dagli altri.

Tradizionalmente la cosiddetta dottrina francese si riferisce a Renan. Conviene quindi esaminarla più da vicino. Come si sa la definizione della nazione che gli si attribuisce è quella di un accordo confortato da “un plebiscito di ogni giorno”. Nel suo testo Renan (al quale preme controbattere gli argomenti tedeschi sull’Alsazia e la Lorena), elimina dagli elementi costitutivi della nazione la razza, la lingua, la religione, gli interessi e la geografia. Stabilisce dopo che la nazione è costituita da un passato comune e la regolare riaffermazione costante di una volontà di vivere insieme. Queste idee sono sommamente rispettabili però bisogna capire che collimano perfettamente con il suo intento, giustificare l’esistenza di una nazione particolare, la nazione francese e la sua volontà di difendere le rivendicazioni francesi sull’Alsazia e la Lorena. La razza, ovviamente, perché ovviamente non c’è razza francese (come non c’è razza inglese, italiana, svizzera ecc.), ma anche perché questo argomento era in auge presso i tedeschi, la lingua (dà l’esempio della Svizzera), ma è anche vero che è meglio per la Francia non farne una base della nazionalità, perché che si fà allora con gli alsaziani, parte dei lorenesi, per tacere dei brettoni (Renan era brettone), dei provenzali, baschi, corsi, fiamminghi? La religione, vero, ma l’anticlericale Renan ha i suoi bravi motivi per non accettare questa identificazione della religione con la nazione (e molti alsaziani, e non solo gli alsaziani, erano protestanti o ebrei), gli interessi, perché, rendiamogli giustizia, Renan ha un concetto più elevato della nazionalità, ma anche perché i neotedeschi alsaziani e lorenesi potrebbe trovarsi bene un giorno di appartenere a un impero in pieno sviluppo economico, la geografia, perché la Francia non ha frontiere geografiche ben delimitate. Con questo non vogliamo dire che gli argomenti di Renan siano tutti pretestuosi o sprovvisti di validità, chi, per esempio, vorrebbe oggi fondare la nazionalità sulla razza? Ma insomma non possiamo esimerci dal pensare che tutto questo fà comodo a Renan. Da notare come la lingua non sia per il Nostro un elemento necessario della nazionalità a dispetto di quanto pretendono coloro che si rifanno sempre a lui (parlando della lingua della repubblica) senza, molto probabilmente, averlo mai letto.

E se a questo plebiscito voto di no, che succede? La teoria contrattuale presuppone un contratto, quindi un’intenzione iniziale, uno scopo, e la possibilità di rescindere il contratto. Poche sono le costituzioni che prevedono un diritto di secessione. Ma allora si tratta di un plebiscito sovietico al quale bisogna dare la risposta aspettata dal potere?

D’altronde la dottrina di Renan, se spinta alle ultime conseguenze, non funziona: se una comunità umana cambia lingua, religione, se gli interessi diventano contrastanti, si può sempre parlare della stessa nazione? Bastano i ricordi comuni? Ma in alcune nazioni vi sono parecchie memorie storiche: in Francia per esempio c’è stato a lungo di fronte alla tradizione repubblicano laicista una tradizione tradizionalista cattolica (in via d’estinzione ma esiste sempre): si deve rifiutare ai suoi sostenitori la qualità di francese, fare coincidere la cittadinanza con l’adesione a un’ideologia, per quanto universalistica essa pretenda di essere? È la definizione di un regime totalitario. Si è già visto, a proposito dell’Italia, che era necessario un potente sostrato, una tradizione storica ecc., altrimenti il contratto è campato in aria.

Abbiamo già iniziato, in precedenti numeri di A Viva Voce, a dimostrare che le definizioni cambiano a seconda degli interessi di chi è in grado di imporre la propria. Recentemente uno studioso importante (ci scusiamo di averne dimenticato il nome) ha voluto dimostrare che la Turchia era l’erede di Bisanzio, anzi era Bisanzio in altra veste (con le attuali polemiche sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, si capiscono i motivi della sua dimostrazione). Aggiungeremo noi che, siccome si può dimostrare, con ben maggiore verosimiglianza, che Bisanzio, ossia Costantinopoli, era l’erede di Roma, si può tranquillamente concludere che i turchi sono gli eredi, anzi sono i romani! È molto divertente vedere a quali paradossi possano arrivare ingegni brillanti ma al limite della malafede. Perché queste stesse persone che vedono nei turchi i romani redivivi, che facevano di Nasser un faraone e degli iracheni gli antichi babilonesi, saranno le prima a strillare se uno sciagurato italiano si rifà alle memorie antiche, ai colli fatali ecc. Non conviene mai perdere di vista il buon senso: i turchi non sono né i bizantini né i romani, gli attuali egiziani non sono più lo stesso popolo che costruì le piramidi ma un popolo arabo con un glorioso passato, ma arabo, gli iracheni non sono i babilonesi e gli italiani non sono gli antichi romani, sebbene loro almeno parlino una lingua derivata dal latino con una continuità culturale maggiore che negli altri casi.

Comunque è chiaro che non ci sono due popoli che hanno la stessa definizione della nazione, perché questa loro definizione è frutto della storia.Gli israeliani per esempio hanno un concetto tutto loro nel quale la tradizione religiosa (anche presso gli atei) svolge un ruolo cardine. Checché si voglia pensare dell’attuale problema mediorientale non si vorrà pretendere che questa nazionalità non esiste?

Conclusione: conviene non essere troppo sistematici. La nazione è una realtà storico-sentimentale la cui definizione cambia a seconda dei tempi e della geografia e questo relativismo va esteso a tutte le comunità umane, che si vogliano chiamare nazione o altro, e quindi vale anche per la Corsica. Possiamo solo invitare i còrsi e più particolarmente i nazionalisti nostrani a meditare questi esempi e a non lasciarsi imporre da fuori una definizione del loro essere. Torneremo con altri esempi su questo argomento.
 

Paul Colombani
08/07/2006