Le ultime righe – Un racconto di Federica Saini per Corsica Oggi

By Redazione Mag 14, 2023

Federica Saini è una giovane scrittrice genovese che conosce e ama la nostra isola, tanto da ambientarvi il suo romanzo “La battaglia di Valinco”, che dovrebbe vedere presto la luce, seguito del suo fortunato libro per ragazzi “L’Orlando avventuroso. La congiura dei Fieschi”.

Pubblichiamo con molto piacere un suo nuovo racconto breve che, per la seconda volta,  ci ha fatto l’onore di regalarci.

Una storia ispirata da un triste  fatto di cronaca, il suicidio di una ragazza poco più che ventenne, laureata in ingegneria e maltrattata sul luogo di lavoro dal suo capo, con molestie maschiliste e angherie. Si chiamava Giulia. Un caso triste e molto simile a quello di tanti ragazzi e ragazze che subiscono ogni giorno pressioni in università e sul posto di lavoro. Ma anche a casa dove non vengono supportati nella loro ricerca di un posto nel mondo, dicono loro che devono avere successo o avranno fallito nella vita. È un problema generazionale molto sentito di cui, nel caso di Giulia, viene incolpato il maschilismo ma che, secondo Saini, ha radici molto più profonde: aspettative troppo alte, incapacità nel gestire le delusioni e l’ansia per il domani. Un racconto col quale l’autrice vuole dare in qualche modo un ideale supporto ai giovani di oggi, della cosiddetta Generazione Z, per far loro capire che non sono soli, che Millenials e Generazione X, i 30, 40 e 50enni di oggi, hanno avuto alcuni degli stessi problemi, ma che non sono insormontabili.

Un problema cui la nostra isola non è estranea. Lo pubblichiamo in un momento in cui tanti giovani lasciano la Corsica, o faticano a trovare prospettive in una regione col tasso di disoccupazione tra i più alti di Francia. In un momento in cui tutto il Paese è attraversato dalle proteste per la riforma delle pensioni, in cui si riflette sulle intelligenze artificiali che iniziano a rubare anche il lavoro creativo, a una vita che sembra debba essere votata solo a produrre e consumare. Per tutto questo vi consegniamo con piacere il bel racconto dell’amica Federica Saini.

Buona lettura!

Le ultime righe

La fiammella sulla capocchia del fiammifero tremolava nel vento, la protessi con la mano mentre mi protendevo ad accendere la candela.
La piccola fiamma si aggrappò allo stoppino, abbracciandolo, e crebbe, illuminando i fiori freschi che le avevo messo attorno.
Sorrisi, era proprio una bella composizione; avevo messo ranuncoli, iris, tulipani e speso dieci minuti del mio tempo per spiegare al fioraio quali fossero qui bellissimi fiori leggiadri e dai petali sottili come carta velina che volevo tanto ma di cui non sapevo il nome, ma che ora erano il cuore del mazzo.
Era proprio uno splendido mazzo di fiori, composto da tutti i suoi preferiti.
“Ma sono per me?!”, chiese zia Mavì, mettendosi le mani sul cuore, io feci cenno di sì mentre mi toglievo le scarpe.
Era comparsa all’improvviso, come sempre, e come sempre era bellissima.
Si protese ad annusare i fiori e i boccoli dei capelli mori le ondeggiarono davanti al petto amplio.
“Bambina mia, ma non dovevi.”, disse, girandosi verso di me e dandomi un grosso bacio sulla guancia; ma poi vide la mia espressione e mi chiese, prendendo subito un tono da mamma preoccupata e abbassando al voce: “Amore mio, che cosa c’è?”
Scossi la testa, guardai un punto nel vuoto e le lacrime, quelle bastarde, cominciarono a solcarmi le guance: “Va tutto male zia; ogni cosa! E io… io non ce la faccio più.”, dissi, fra i singhiozzi. “È tutto uno schifo!”, gridai.
Zia Mavì non si scompose. Non fece come facevano tutti gli altri miei parenti che si indignavano quando mi arrabbiavo o, peggio ancora, prendevano le distanze da me ogni volta che mi lamentavo di qualcosa. Quando succedeva andavo sempre da lei, da zia Maria vittoria, detta Mavì.
“Scusa zia.”, dissi: “Sembrerà che vengo da te solo quando ho dei problemi.”, ma lei mi rassicurò, sedendosi e facendomi cenno di mettermi accanto a lei. “Ma no, a cosa servono le vecchie zie matte e nubili se non ci sono per consolare i nipoti?” “Tu non sei per niente vecchia, e non sei matta.”, le risposi sedendomi, ma non riuscii a metterci un solo briciolo di allegria.
Lei rise, bella e giovane come il primo giorno che l’avevo vista: “O si che lo sono, se non matta sicuramente vecchia; non farti ingannare dai capelli mori. Sono una vecchietta vanitosa.”, disse, scostandosi con una mossa da diva i capelli dal viso senza una sola ruga, liscio come quello di una ventenne.
Allungai una mano ad accarezzare i petali che ondeggiavano al vento. “È l’università, vero?”, chiese lei, ma io risposi di no, che l’università alla fine, dopo anni di sacrifici e sforzi sovrumani nella facoltà di ingegneria edile, l’avevo finita; le lacrime continuavano a scendere, ma io ormai non avevo più la forza per fermarle.
“No, è il lavoro, o meglio, l’assenza totale del lavoro. Sono sei mesi che aspetto che mi paghino zia, sei fottuti mesi! Continuo a far richiesta di un contratto, ad andare li tutte le mattine; sono la prima ad entrare e l’ultima ad uscire. Ma non c’è niente da fare, non succede niente, non mi ascoltano. Ho provato a cercare altro, ho cercato dappertutto, in altre città, in altre regioni; ma pare che questo sia l’unico ufficio che voglia assumermi, anche se in realtà non mi assumono mai.”, dissi in un singhiozzo.
“Non è per i soldi, io mi so accontentare, io ci andrei anche a cercarmi un lavoro che mi faccia fare le mie otto ore e mi dia i miei nove, anche ottocento euro al mese. È una miseria, ma sono capace di vivere con poco. Il problema è… cosa lo sto facendo a fare? Cosa ho studiato tanto a fare? Non è servito a nulla, io non servo a nulla! Sono solo una delusione… una vergogna. Dov’è che sto andando, quando potrò avere quello che mamma e papà avevano già alla mia età, quand’è che potrò cominciare a vivere davvero?!
Che senso ha tutto questo?!”
Zia mi ascoltava, in assoluto silenzio, sentivo il suo gran calore accanto: “Sono un essere inutile. Stamattina il capo mi ha detto che sono mediocre, che otterrei di più mettendo le tette in mostra.”
Zia divenne tutta rossa di collera: “Ma come si permette! Ma tu guarda che stronzo! E tu cosa gli hai risposto? Glielo ai dato uno schiaffo? Tuo padre e tua madre cosa hanno detto?” Ma io mi strinsi nelle spalle, vergognandomi di quello che stavo per dirle: “Nulla, non gli ho risposto nulla. E a mamma non l’ho detto, sai com’è lei.”
Zia sospirò pesantemente e fece cenno di sì, sapeva bene com’era fatta sua cugina, una donna buona, ma convinta nel profondo che fossero sempre lei e la sua prole il problema, che tutti loro fossero inadeguati, sempre ad un passo dal fallimento.
Disse al vuoto, in un sussurro, con gli occhi persi: “Povere, povere care; non vi meritate tutto questo, tu non ti meriti tutto questo.” “No, ma sappi che non è per quello stronzo che sono qui.” Lei sorrise e mi allungò una carezza, asciugandomi le lacrime che continuavano a scorrere: “Brava la mia bambina, l’ho sempre detto che eri la più forte di tutta la famiglia.” Sospirai pesantemente, sapevo che stavo per darle un enorme dolore, ma avevo preso una decisione: “Non sono così forte. Zia, io voglio farla finita.” Quelle parole la scossero come un terremoto, mi guardò indignata. “Ora tu vieni qui fra le mie braccia e ascolti con molta, moltissima attenzione, Ok?”, con mia grande sorpresa mi prese in braccio nel suo grembo senza alcuno sforzo, come fossi ancora una bambina; mi circondò le spalle con un braccio e mi prese la mano. Io la guardai piena di speranza e di dolore e lei mi disse: “So benissimo qua l’è il problema, non è il maschilismo di quell’omo da poco, nessuna donna è così fragile da mollare la sua intera vita per le parole di una persona cattiva; siamo più forti di così, tu sei forte. Sbaglieranno su di te quando lo sapranno lo sai? Diranno che lo hai fatto perché un uomo ti ha umiliata, che il mondo del lavoro in Italia toglie la speranza e la vita ai giovani, ma io so che queste sono solo le ultime gocce che fanno traboccare il vaso. Io so perché sei qui, e so cosa serve dirti, so cosa serve a tutti i giovani come te. Una cosa che non vi ha mai detto nessuno.”
Prese un bel respiro profondo e, guardandomi dritta negli occhi, mi disse con voce piena di sicurezza: “La vita non è successo.”
Fece qualche secondo di pausa prima di continuare, aspettando che quelle parole si depositassero dentro di me: “Io non ho avuto successo nella mia vita, non ho avuto una carriera o una professione di cui andare orgogliosa. E non sono nemmeno riuscita ad avere figli, una famiglia. Quello che avrebbe dovuto essere tuo zio morì prima che riuscissimo a sposarci e non trovai mai più un altro uomo come lui.”
Mi guardò e per un istante potei vedere una lontana scintilla di tutto il dolore che aveva provato. Mi si strinse il cuore; sì, mamma me lo aveva raccontato, e non era giusto, l’intera vita di zia era stata una grande ingiustizia.
“E non che non ci abbia provato sai?”, riprese lei, il dolore completamente sparito dai suoi occhi; come fosse stata la scintilla di un incendio spenta dalla pura forza di volontà. “Ho imparato decine di mestieri, ho provato a scrivere, a fare l’artista, sono anche andata a lavorare in Germania, in Francia, ma per quanto mi impegnassi e lottassi tornavo sempre a casa senza nulla in mano, il successo per me è sempre stata quella cosa che capitava agli altri.
La vostra generazione crede che questi siano i soli anni in cui la società ha fatto pressione sui giovani; io ho avuto la tua età negli anni ottanta, quando per le donne esistevano solo tre strade: l’angelo del focolare, la guerriera attivista o l’imprenditrice in carriera.
Io non sono riuscita ad essere nessuna delle tre.”
Mi si strinse la gola; provavo un misto di rabbia, di frustrazione e di angoscia, zia se ne accorse, mi prese il mento fra le dita e mi girò il viso verso il suo, non volevo sentire quello che stava per dirmi, ma non mi lasciò scelta: “Ho avuto motivo tante volte di farla finita per questo; quante volte ho pensato, come te, di non valer nulla, che la mia vita non valesse nulla, che tutto ciò che avevo non me lo ero guadagnato e che quel che desideravo avrei potuto averlo solo se fossi riuscita a combinare qualcosa di buono. Eppure sono qui con te, e sai perché?”
Mi asciugai le lacrime e scossi piano il capo, non riuscivo nemmeno ad immaginare la mia vita senza zia Mavì. Lei sorrise ancora più dolcemente ed il suo abbraccio morbido sembrò quello di una mamma, o di una nuvola. “Perché la vita non è il successo. Ho capito dopo molti sforzi che la vita è tutto quello che c’è in mezzo. Te lo sarai sentito ripetere decine di volte, e ormai pare banale, e stupido; ma è vero: le relazioni, gli amici, un viaggio, un gran bel film, una giornata di sole e una passeggiata al parco, tutto questo è la vita, tutto questo è la felicità, e non importa se effimere o eterne, sono tutte cose che possono capitarti a dieci, a trenta, a cinquanta e a novanta anni, in ogni momento; sono regali e non devi fare nulla per meritarteli.”
Prese a carezzarmi i capelli mentre parlava, chiusi gli occhi e sospirai. “La vita non ha età. Ho conosciuto persone che avevano avuto ben più di un successo, avevano avuto i soldi ed il prestigio, l’invidia della gente e l’orgoglio dei genitori, eppure questo non impediva loro di essere infelici. E non infelici nel senso che i problemi ed una brutta giornata possono capitare a chiunque, ricco o povero, ma quel tipo di infelicità che non ti permette di dormire la notte, che ti mette un macigno nel cuore. E vogliamo parlare dei figli? Si dice che i figli siano la gioia della vita, eppure io non ho mai conosciuto un solo genitore felice. Non fraintendermi non intendo dire che non amavano i propri bambini o che la loro nascita non era stata una gioia, ma che la loro presenza non aveva realmente portato un solo grammo della soddisfazione personale tanto pubblicizzata da tutti. Eppure quante povere donne si struggono e buttano via la loro vita nel dolore di non riuscire ad aver figli? Convinte che la soddisfazione di essere madri darebbe finalmente un senso alle loro sterili vite?” Presi un gran respiro, la gola mi faceva male per il gran pianto, ma riuscii comunque a chiedere, con un filo di voce: “Ma allora perché tutto questo zia? Perché tutti cercano sempre di spingerti a fare grandi cose, a realizzarti e a trovarsi un compito importante? A che serve?”
Ma zia non aveva tutte le risposte, e si strinse nelle spalle: “Non lo so amore mio; ma un segreto te lo posso svelare”, e aggiunse, con un sorrisetto complice, gli occhi le brillavano di furbizia: “Non lo sanno neppure loro.” E questo, inaspettatamente e senza alcun senso, mi fece scoppiare a ridere, una risata pura e sincera che mi veniva dal cuore, e zia rise con me. “Non saltare bambina mia.”, disse con un filo di voce. Il vento mi scompigliò i capelli, freddo. Chiusi gli occhi quando una ciocca mi finì in viso, e quando li riaprii zia Mavì non c’era più. Dovetti afferrarmi alla ringhiera con tutte le mie forze perché tremavo come una foglia e quasi scivolai nel vuoto. Il cuore mi si era stretto così tanto in petto da pensare che non avrei avuto bisogno di saltare per morire, sarei morta di crepacuore. Guardai giù, nell’acqua del fiume che, tumultuosa e nera, vorticava sotto di me, a decine di metri in fondo al baratro.
In un sussurro gonfio di dolore le dissi: “Eppure tu saltasti.” Non sentii con le orecchie le parole che seguirono, furono come una rivelazione, un sussurro del cuore: “Sì, io ho saltato, ma non avrei dovuto.” Rimasi molti minuti persa nel vento, nel buio, ad ascoltare attentamente, protesa con tutta me stessa, ma zia Mavì non mi disse nient’altro; aveva già detto tutto ciò che desiderava dirmi. “Ti voglio bene, zia Mavì.”, dissi, la voce mi tremava e le lacrime mi solcavano il viso. Con moltissima cautela mi voltai verso il ponte; alzai la gamba destra e la portai oltre il parapetto, stringendo forte la ringhiera e pregando di non scivolare.
Ho sempre trovato tragicamente buffo il modo che hanno i suicidi ravveduti di mettersi in salvo, di tornare al sicuro, brancolando affannosamente per chiudere il gas, chiamando a squarciagola i soccorsi, o, nel mio caso, tornare con i piedi sul solido cemento lasciandosi alle spalle un salto di trenta metri nel vuoto.
Ma ce la feci.
Con le ginocchia che tremavano mi accasciai sull’asfalto, prendendo grandi sorsate di aria fino a che i polmoni non smisero di farmi male. Guardai alla mia destra; la candela commemorativa bruciava ancora e i fiori vibravano nel vento, legati stretti alla ringhiera, nel punto esatto dove zia, vent’anni prima, il giorno del mio quinto compleanno, si era gettata.

A Giulia.

 


In copertina: foto di Miguel Á. Padriñán

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