La rocca perduta – Un racconto di Federica Saini per Corsica Oggi

By Redazione Ott 31, 2023
Non so in quanti corsi conoscano la storia del mostro dell’isola, io ne ho scoperto l’esistenza grazie alla biblioteca storica di Bastia e alla sua direttrice mentre facevo ricerche per il mio libro. Ho amato la semplicità e la crudezza di una storia che non vede per protagonisti draghi, serpi o altre creature mitiche ma la natura aliena e inumana di un insetto. Ora, chi conosce la storia sa già di cosa sto parlando, ma chi non la conosce si gusterà di più questo piccolo racconto autunnale di mostri, esplorazioni e vallate incontaminate. Sembra che la storia della nascita del mostro sia collegata al tentativo della chiesa di mettere in guardia i pastori sulla pericolosità del tifo e altri terribili morbi che nascono dall’incuria del trattamento dei cadaveri, così come fu per la creazione del drago che infestava le paludi della pianura padana. Io amo i mostri e penso che i popoli dovrebbero essere fieri dei propri mostri perchè rappresentano la storia rurale delle proprie terre, le paure dei propri avi e i problemi che dovevano affrontare. Chissà quale mostro rappresenterebbe bene i tempi moderni.
Federica Saini

Colpi bassi e vibranti nella terra, lontani, la svegliarono. Nella rocca il tempo scorreva lentamente, e i rumori si propagavano come un incendio nella foresta. La pietra, grezza e fredda, scricchiolò sotto di lei ed il brecciolino che si creò scorse in rivoli giù, di sotto, nel buio. I colpi, cadenti e ritmati, smisero; passarono alcuni minuti, poi ripresero. Non poteva essere una creatura della valle, pensò, e pensò anche che quel rumore non le piaceva, non le piaceva per nulla, la infastidiva. Sentiva che il sole era sorto da parecchio; lo sentiva anche se non lo vedeva, anche se nemmeno quello gli piaceva. La notte sarebbe stato il momento preferito per cacciare, ma non si era mai nutrita di piccoli roditori e manguste, aveva bisogno di grassi cerbiatti succulenti per sfamarsi, capre, pecore, cavalli selvatici.. E altro. Cose che avevano pensieri razionali ed un dio da pregare. In pochi salti, dato che le costava fatica camminare, raggiunse l’ingresso dalla tana. Aveva nevicato. La sua vallata era coperta da una spessa coltre candida. Si accorse che nevicava ancora, in verità; grossi fiocchi cadevano dolcemente dal cielo, sporadici come i pensieri razionali di un sognatore. O come le gentilezze di un uomo molto cattivo, si scoprì a pensare. Cédric, fece scorrere il moschettone sulla corda, lo prese fra le dita, lo aprì e lo passò nella corda sopra di se, dove aveva appena finito di martellare nella dura roccia il picchetto. Passato poi anche il secondo moschettone di sicurezza si issò sulle braccia. Dovette ripetere l’operazione più volte; ogni colpo della sua piccozza per piantare i picchetti nella roccia vergine faceva tremare la pietra sotto le sue dure dita da scalatore. La salita era ripida, e la voragine di sotto spaventosa, e meravigliosa, pensò il giovane, lanciando un incauta occhiata alle sue spalle. L’aspra bellezza dell’isola gli restituì lo sguardo. Nessun segno di civiltà da quelle parti, nessun paesino, nessuna fattoria, nessun rifugio; solo la natura selvaggia, le verdi lande corse, con i suoi corsi, d’acqua, le cascate, le foreste di lecci e di querce da sughero. Cédric, il vento gelido che gli sferzava il volto, finì di riprendere fiato e riprese la scalata. Quando fu in cima si issò su una grossa roccia e si sedette. Ce l’aveva fatta, pensò, soddisfatto di se stesso. “Ne valeva al pena cazzo”, disse ad alta voce alla grande foresta sotto di se. Solo dopo lunghi minuti di contemplazione si tolse l’imbragatura e mise le corde in sicurezza prima di levarsi il caschetto e girarsi verso quella inesplorata fetta di mondo. Con grande stupore si ritrovò circondato di neve. Neve candida ovunque. “Sono davvero in alto allora!” La nave copriva la cima dei pini e il pendio che, dal picco roccioso raggiunto da Cédric, scendeva giù, nella valle vergine. Con lo zaini in spalla ed il cuore gonfio di voglia di avventura il solitario scalatore prese la sua esplorazione. Era incredibile che lassù ci fosse già la neve, era solo metà ottobre. Cadeva leggera e scricchiolava sotto gli scarponcini. Un gruppetto di volpi, che si preparavano per l’arrivo dell’inverno, rimase ad osservarlo senza eccessivo timore. “Non hanno mai visto un umano, non sanno nemmeno che cosa sono”, pensò Cédric, felice che, nel mondo, ci fosse un posto in cui il piede umano non calpestasse il suolo da così tanto tempo da permettere alla fauna di dimenticarsi dell’esistenza dell’umanità. Era un posto da fiaba, ma la meraviglia e lo stupore gli riempirono il cuore quando, oltre la macchia di pini innevati, vide che il cuore della valle era occupato da una rocca. Un castello medioevale sormontava la valle, o almeno lo faceva il rudere che ne rimaneva. Cédric ammirò, incantato, la torre che ancora dominava la rocca, pericolante e sbriciolata dal tempo, ma ancora lì, alta e maestosa. “Meglio non andare lì a cercar riparo per la notte, chissà a quanti orsi e lupi piace andare a rifugiarcisi; però se la esploro di giorno non dovrebbe esserci pericolo”, così dicendo si incamminò, a cuor leggero, verso i resti del castello. La valle era percorsa da un fiume e, seguendolo, Cédric trovò i resti di un antico mulino. Le pale di legno che erano immerse nell’acqua erano andate marcite e il tetto di tegole crollato, ma questo non faceva che aumentare il fascino romantico della struttura, ricoperta di rampicanti dalle foglie scarlatte come una colata di sangue. Più avanti scorse i resti di un villaggio. “Appena torno devo assolutamente parlare di questo posto alla guardia forestale”, si disse il giovane tirando fuori la mappa topografica per controllarla. Come pensava, non esisteva traccia sulle mappe di questo posto, sorrise di felicità. “Potrei aver trovato un borgo perduto!”, si disse. Chissà quanta storia racchiudeva questo posto, si chiese mentre percorreva quelle che una volta erano stradine battute a terra e adesso, invece, sentieri nella vegetazione. Ma la cosa che lo incantò più di tutte fu il lastricato di pietra che sentì sotto i piedi quando si fu avvicinato abbastanza alla rocca. “Questo posto doveva appartenere ad un gran signore” Alzò gli occhi alla rocca sopra di sé, e fu allora che sentì il sangue raggelarsi nelle vene. Lassù, dalla rocca, qualcosa lo stava osservando. Non era un orso, troppo grosso per essere un orso, troppo nero. “Cosa… diavolo…” Nero come una goccia di pece caduta dal cielo in mezzo a tutto quel candore, enormi occhi rossi rubino che non erano quelli di un mammifero. Il vento in quel momento cambiò e portò alle sue narici un tanfo di putrefazione e morte che gli rivoltò lo stomaco. Ricordava a stento cosa fosse quella piccola creatura colorata ai piedi della sua rocca. “Un cristianu”, pensò, piena di meraviglia, e poi di infima, malvagia soddisfazione mentre spalancava le ali. “Un cristianu di novu in a mo valle!” Spiccò il volo e il suono delle sue ali riempì l’aria. Cédric gridò di sgomento. Un paio di enormi ali trasparenti come cristallo si erano erse sopra la creatura che si mise in volo. Subito il basso, lugubre rombo delle ali di mille calabroni riempì la vallata; le volpi fuggirono nelle loro tante e da lontano, l’ululato di un lupo, avvisò i sudditi della valle di correre a nascondersi, e così fece anche Cédric. Arrancando fra i ruderi trovò rifugio fra i muri di una casetta dal tetto miracolosamente integro e, col cuore che batteva forte nelle tempie, si mise schiena al muro di pietra gelida. “Una mosca, quella è una mosca!”, si ripeteva a bassa voce, come per il timore di essere sentito. “La mosca più grossa che abbia mai visto!” Con dita tremanti prese la macchinetta fotografica usa e getta dallo zaino, si fece coraggio e spuntò fuori dal rifugio. Eccola lì, si era appostata sulla cima della torre. Cédric scattò foto, più foto che poteva. A casa sua, Limoges, nessuno avrebbe mai creduto a quello che abitava lì se non avesse portato delle foto. “La guardia forestale sa che venivo qui, devo solo aspettare, aspettare fino a domani e mi verranno a cercare”, si ripeté, sapendo benissimo che questo voleva dire restare imprigionato nella valle quella notte con quella… cosa. Cédric non si mosse dalla casetta per l’intero pomeriggio; quando prese abbastanza coraggio tirò giù lo zaino dalle spalle e ne tirò fuori la cena. Avrebbe voluto cucinare sul fornelletto a gas ma ebbe troppa paura che gli odori che avrebbe sprigionato e la luce che la fiammella avrebbe attirato il mostro, così si accontentò di pane, salumi e un grosso pezzo di formaggio. Di tanto in tanto sentiva il mostro di Fretu ronzare alta sopra la sua testa, posarsi li vicino e poi ripartire per volare via, ma stando sempre dentro la valle. Cédric pensò che lo stesse tenendo d’occhio. Che lo stesse aspettando, anzi, che stesse giocando con lui. Non aveva mai pensato che gli insetti, al di fuori di ragni particolarmente vecchi e grossi, potessero avere un qualche tipo di intelligenza, ma sembrava che questa mosca colossale di intelligenza ne avesse. A volte, se ascoltava bene, gli pareva di sentire una voce in mezzo al ronzare, una voce umana che lo chiamava fuori, una voce che cantilenava in lingua corsa: “Cristianu, esci cristianu, venite à scuntrà u signore Ursalamanu” “È solo la mia immaginazione”, andava ripetendosi. Non pensò nemmeno per un istante di uscire dal proprio nascondiglio, la casetta gli pareva sicura, aveva solide pareti di roccia, un rudimentale camino e travi sul soffitto, c’erano ancora i resti di un tavolo, un arcolaio in un angolo, arbusti e piante di more spuntavano da quel che rimaneva delle assi del pavimento da cui Cédric mangiò qualche frutto, aspro e dolce. Poi il sole scomparve all’ombra della montagna e la notte calò sulla valle. E allora tutto cambiò. La casetta non gli parve più così sicura, le travi non tanto solide e, di tanto in tanto, qualcosa cadeva dal comignolo del camino finendo a rotolare su quel che restava del pavimento. Il giovane esploratore non aveva il coraggio di andare a controllare cosa potesse essere, ma sapeva che non era il vento notturno a sospingere quelle cose nel camino. Il vento ululava da ogni fessura producendo un lugubre canto fino a che Cédric non ne poté più e guardò fuori. Il cuore gli si riempì di sollievo quando intravide, dalla più alta finestra della torre, una luce: la luce di una candela. Osservò meglio e avrebbe giurato che c’era una figura a quella finestra, una figura umana! Prese solo l’indispensabile dallo zaino, per essere più leggero e agile, e uscì. C’era la luna piena quella notte. Tonda e argentea come una moneta sorgeva dietro la rocca, illuminando la vallata immacolata. Il giovane corse subito verso la rocca, guardandosi attorno come un leprotto braccato e tendendo le orecchie ad ogni più piccolo rumore. “La rocca! Nella rocca c’è chi mi aiuterà!”, pensava mentre si inerpicava su per la strada in acciottolato, stando attento a muoversi nell’ombra di alberi e case. E fu allora che capì. Il ronzare si fece insopportabile quando il mostro fu sopra di lui. Cédric ci mise tutte le proprie forze, corse su per la salita col cuore in mano mentre il tanfo gli riempiva le narici e il rombare assordante le orecchie. Era una trappola, un’imboscata! Quando si gettò dentro la rocca fu salvo per miracolo, si infilò in un’apertura alta e stretta e si appiattì alla parete quando le zampe della bestia si infilarono, pelose e munite di uncini affilati, a grattare sulla pietra nel tentativo di prenderlo. La luce della luna filtrava dalle finestrelle della rocca e così poté vedere gli scalini che portavano su alla torre. Erano di legno, pericolanti e marci, ma non aveva altra scelta. O forse sì. Si slegò la corda che si era legato attorno al busto e alla vita, prese i picchetti dalla tasca della giacca, la picozza appesa alla cintola e Cédric si mise a scalare. “Cristianu, esci cristianu, venite à scuntrà u signore Ursalamanu!”, invocava la bestia da sotto, come fossero rimaste le uniche parole che ricordasse; il suo nome e il suo titolo! Ursulemanu, signore di Fretu. Quando Cédric raggiunse la cima della torre si issò sulle braccia ma quelle gli cedettero appena vide la candela che ardeva alla finestra e la figura che l’aveva accesa. Quella si voltò, impalpabile nella luce, e il suo amplio vestito da nobildonna corsa roteò con lei, candido come la neve, come uno spettro. Quando la signora di Fianu ghignò Cèdric cadde per un tempo che gli sembrò infinito fin quando la corda si tese con uno strattone. Lo scalatore venne sballottato contro le pareti fino a cozzare la testa nuda dall’elmetto, e svenne. Il rombo delle ali lo svegliò, facendolo gridare di terrore. La mosca lo stava trasportando in volo nella sua tana per divorarlo, sentiva gli artigli immobilizzarlo e tenerlo stretto; ma erano mani umane a tenerlo fermo, e lacci quelli che lo legavano alla barella dei soccorritori. “Stia calmo signore, è in elicottero, l’abbiamo trovata appeso dentro la torre di una rocca abbandonata e pericolante, cos’è l’ultima cosa che ricorda? Si ricorda il suo nome?”, gli chiese la soccorritrice davanti a lui che cercava di tranquillizzarlo. “C…Cédric, Cédric Di Montecristo. Sono… sono uno scalatore professionista” “Bel professionista”, commentò una burbera voce maschile alle sue spalle sull’elicottero mentre la soccorritrice gli controllava occhi e battito cardiaco. “Andare a cacciarsi li dentro senza che niente e nessuno potesse raggiungerla, abbiamo dovuto fare un bel casino per tirarla giù da lì sa? Cosa le ha detto il cervello? Possibile che siete sempre voi francesi quelli che si cacciano nei guai più grossi? L’abbiamo trovata solo grazie alle impronte nella neve e al suo fiuto”, disse, coccolando la testa di un grosso pastore tedesco fra i suoi piedi, che scodinzolò. Cédric non ebbe la forza d’animo per rispondere alla ramanzina, si limitò a stare in silenzio e a guardare la valle sotto di se che si allontanava. Era l’alba, era sopravvissuto fino all’alba restando al sicuro sospeso fra le mura della torre dove nessuno, e nulla, era riuscito a raggiungerlo. Non avrebbe parlato a nessuno del mostro di Fianu e degli spettri della sua famiglia che abitavano ancora il suo castello, con nessuno, mai.

 

Federica Saini

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