Anche la politica e le istituzioni fanno un uso ormai molto ampio di termini inglesi non tradotti buttati dentro frasi italiane. Le leggi ormai vengono chiamate “act” e le tasse “tax” (flat tax, sugar tax, web tax). In economia ci sono lo spread, le agenzie di rating e il quantitative easing. L’RGPD (sigla usata in Francia, Spagna, Portogallo e Romania per indicare il Regolamento Generale per la Protezione dei Dati) in Italia si chiama GDPR, all’inglese. Per i giornali italiani Macron e Merkel non hanno parlato di “fonds de reconstruction” ma di “recovery fund” (dove fund spesso è pronunciato come “found”). Termini che tanti italiani considerano internazionali ma che nella maggior parte degli altri Paesi non sono in uso (spesso neanche in quelli di lingua inglese). E questi sono solo alcuni esempi della situazione linguistica italiana, che negli ultimi dieci anni si va sempre più aggravando.
Uno dei risultati – tra gli altri – è che in Italia il linguaggio della stampa e della politica, ma sempre di più anche quello dell’istruzione e della scienza, stanno diventando incomprensibili.
Per cercare di (ri)portare l’attenzione su questo tema, è stata lanciata una settimana fa una petizione in linea (anzi online) che ha già raccolto oltre 2000 firme. Ma ne servono molte di più per poter dimostrare che c’è una parte significativa della popolazione che tiene al futuro della lingua italiana e alla trasparenza del linguaggio politico. Non si tratta di una battaglia di “purismo” ma di buon senso e di chiarezza, contro un atteggiamento ridicolo e irrispettoso del diritto dei cittadini alla chiarezza.
Che tu sia cittadino italiano oppure no, se credi in questa causa, FIRMA LA PETIZIONE, parlane con quante più persone puoi e condividi usando: #litalianoviva