Leonetto Cipriani, l’affascinante storia d’un avventuroso capocorsino

Leonetto Cipriani, figlio di Matteo e Caterina Caraccioli, nacque a Ortinola di Centuri (Corsica) il 16 ottobre 1812 e vi morì il 10 maggio 1888.
Di schietti sentimenti italiani, fu, coi familiari, un partigiano ardente dell’unità italiana ed ebbe una parte molto importante nelle lotte di liberazione che miravano all’unità della Penisola.
Senatore e Cavaliere di Gran Croce del Regno d’Italia, Conte, Nobile del Patriziato di Livorno e Generale dell’esercito italiano, ricevette per questi motivi il sopranome di “Generale – Conte”.
Legato allo stesso tempo al Bonaparte, per mezzo del Principe Girolamo Napoleone, di cui era intimo, alla Casa Savoia (Regno di Sardegna) e a quella degli Asburgo – Toscana (Granducato di Toscana), egli contribuì all’adesione volontaria dello stesso Granducato al nuovo Regno d’Italia. Fu anche amico di Garibaldi, di cui non condivideva tuttavia l’opinione repubblicana. Commerciante e proprietario terriero in Toscana, Corsica e a Belmont in California (U.S.A.), ebbe occasione di attraversare l’Atlantico e soggiornare in America molte volte. Avventuriero, fu uno dei primi pionieri ad attraversare il continente nord – americano. Ha lasciato memorie, redatte nel 1876, che interessano allo stesso tempo la storia dell’unità italiana e la conquista dell’ovest americano.

Il paese natio

Centuri è un minuscolo paese con un piccolo porto da pesca, sito sulla costa occidentale della punta del Capo Corso. Il comune, che conta circa 215 abitanti stabili (palesando la tendenza al calo demografico, se consideriamo che nel 1852 gli abitanti erano 720), è delimitato a nord e ad est dalla dorsale montuosa di Mandrioni, con un susseguirsi di cime che culminano nei 544 metri della Punta di Torricella, che lo separa dai vicini comuni di Ersa e Rogliano. A sud confina con il paese di Morsiglia, attraverso il torrente Majo. La sua costa si estende da Capo Bianco a nord, alla spiaggia di ciottoli di Mute a sud, di fronte all’isoletta di Capense (riserva ornitologica), situata davanti al porticciolo. La vegetazione, di profumata macchia mediterranea, che copre l’intero territorio comunale, è caratterizzata da lecci, corbezzoli, lentischi, arbusti spinosi, eriche, ciste e capperi. Pittoresco e colorato, Centuri rappresenta un vero piacere per gli occhi. E’ piacevole passeggiare nelle caratteristiche stradine di questo villaggio così attraente e ammirare lo spettacolo suggestivo delle barche da pesca che rientrano o escono dal porto. Il comune è formato da 8 diversi piccoli villaggi, tutti abbarbicati sul pendio della montagna, a semicerchio intorno al porto: Camera (dove si trova la monumentale cappella funeraria della nobile famiglia Cipriani, del XVI secolo), Cannelle, Orche, Bovalo, Merlacce, Porto di Centuri, Mute, e Ortinola, villaggio natale di Leonetto, raggruppato attorno alla Chiesa di San Rocco, dove il Conte fece costruire un originale castello in stile neomedioevale, detto di Bellavista, recentemente acquistato e ristrutturato da estranei.

Le origini nobilissime della famiglia

Leonetto era erede d’un antico e nobile casato capocorsino d’origine fiorentina, citato addirittura dal sommo poeta Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, installatasi nel Capo Corso forse nel XV secolo. Questa famiglia, nel XVI secolo, era già ricca e potente e le sue imbarcazioni si spingevano a pescare il corallo fin lungo le coste dell’odierna Algeria.
Alcuni membri della casata di Leonetto Cipriani, pure originari di Centuri, si erano trasferiti a Livorno, al cui patriziato erano stati ascritti, dopo aver fatto fortuna grazie ai traffici di generi coloniali e bestiame con le Piccole Antille (l’arcipelago del mare dei Caraibi che si estende ad arco da Porto Rico in direzione sud fino alla costa venezuelana), nei decenni a cavallo tra il 1700 e il 1800. Da questo nobile casato corso, ramo dell’omonima famiglia fiorentina e livornese, vantante anche una lontana parentela coi Buonaparte di Corsica, fiorirono ulteriori rami in altre regioni italiane, come i Cipriani di Nicotera (Calabria) imparentati anche con alcune famiglie del patriziato di Tropea (Calabria).
Questo ci illustra nel 1800 lo stesso Conte Leonetto e, a dimostrazione della tradizione che vuole i Cipriani di Nicotera originati da quelli di Capo Corso, ci sono alcuni manoscritti della famiglia e una tradizione familiare. In una copia ottocentesca delle “Memorie”del Conte Leonetto Cipriani, custodita dal ramo calabrese, si legge una dedica autografa al nobile Francesco Maria Cipriani di Nicotera, che il conte Leonetto scrive con queste parole: “Al caro congiunto Francesco Maria…”.

L’infanzia e l’adolescenza

Il padre di Leonetto, il Conte Matteo Cipriani, era rientrato a Centuri nel 1809, dopo aver passato quindici anni nelle lontane Antille, nell’isola di Trinidad (già possedimento spagnolo, occupato dall’Inghilterra nel 1797) e aver conquistato una fortuna. Caterina Caraccioli, la sua innamorata di gioventù, l’aspettava. Egli la sposò, mettendo al mondo ben undici figlioli, dei quali solo sette sopravvissero, tre femmine e quattro maschi, dei quali Leonetto era il più grande. Da ragazzo Leonetto era molto vivace e sbarazzino, mostrando fin da allora inclinazione al comando e temperamento temerario e risoluto. Si narra di come, alla testa d’una banda formata da ragazzi del paese basso di Centuri, cioè della Marina, passasse il suo tempo a battersi contro quelli del paese alto, rientrando in casa coperto di abrasioni, lividi, bernoccoli e spesso sanguinante. La notte, pare che facesse brutti sogni. Nella sua grande famiglia c’erano diverse persone di elevata cultura, assennate e assai capaci.
Matteo Cipriani aveva un fratello, Domenico, vedovo con un’unica figlia, commerciante a Livorno. Quando Domenico morì, seguito subito dopo dalla figlia, Matteo se ne andò in Toscana per seguire le attività commerciali del defunto fratello. Nel 1820, la moglie lo raggiunge con i due figli Leonetto che aveva 8 anni e Alessandro che ne aveva 2. Erano proprietari di un’autentica fortuna accumulata negli anni dalla famiglia: un palazzo a Livorno, un altro a Pisa, magazzini, depositi, terre, battelli. Leonetto fu iscritto a scuola a Livorno e poi al famoso Collegio Santa Caterina di Pisa. Egli poté così acquisire una notevole cultura, soprattutto in campo umanistico, distinguendosi particolarmente nello studio della civiltà classica e del latino. Queste basi gli torneranno molto utili in seguito, quando intraprenderà la carriera politica e diventerà un pubblico amministratore. In questi anni il carattere di Leonetto, se pure piuttosto aspro, ribelle e insofferente alla rigida disciplina del collegio, manifestò una grande sensibilità nell’assoluta contrarietà ai soprusi ed alle prepotenze, tanto da non poter soffrire quei professori che – in sintonia coi tempi – si mostravano particolarmente rigidi. Questa formazione caratteriale avrà un seguito nella sua età adulta. A 17 anni, infine, venne espulso dal collegio, per aver reagito con un calcio al rettore che l’aveva offeso dicendogli che era “peggio di una bestia feroce”. Leonetto, forte e orgoglioso, reagì con estrema dignità ad un provvedimento tanto grave quanto drastico, ma non intese più continuare siffatti studi. Nel 1829, in alternativa agli studi, in quella martoriata e politicamente frammentata Italia dell’epoca, priva di un proprio governo e quindi di esercito nazionale, non potendo far diversamente stante il governo francese sulla propria Isola, tentò di arruolarsi nell’Armata francese, dove non fu accettato per limiti d’età.

Le avventurose imprese – l’Algeria

L’anno dopo, il 1830, la Francia decise di conquistare l’Algeria e vi inviò allo scopo una grande flotta d’invasione, che avrebbe dovuto prima fare scalo tecnico presso l’isola di Maiorca (isole Baleari, Spagna). Leonetto, venuto a sapere che il comandante in seconda dello Stato Maggiore Generale della spedizione francese era il suo conoscente Colonnello Antoine Juchereau, che aveva conosciuto in Corsica, pensò che potesse concedergli l’autorizzazione al commercio nel paese africano. Il 10 maggio di quell’anno Leonetto si imbarcò e partì da Livorno, sul battello carico di mercanzia che suo padre gli aveva affidato. Leonetto era un uomo d’affari esperto e prevedeva che, in Africa, ci sarebbe stato parecchio da fare nel commercio. Cinque giorni dopo, il Nostro giunse nel porto di Palma di Maiorca (nell’omonima isola), dove aspettò l’arrivo della flotta militare francese, composta da 104 navi da guerra e 572 bastimenti, fra grandi e piccoli, carichi di truppe, munizioni e viveri, che doveva farvi scalo tecnico. Quando questa giunse, riuscì a farsi ricevere a bordo della nave ammiraglia, dove incontrò lo Juchereau, il quale lo presentò al proprio superiore Generale De Bourmont che comandava la spedizione. Ottenne così di seguire la flotta con la sua imbarcazione, in direzione di quelle coste africane dell’odierna Algeria che ospitavano tanti pirati che, per secoli, avevano terrorizzato gli abitanti di tutte le coste italiane, dalla Liguria alla Sicilia, dalla Corsica alla Sardegna, a partire almeno dal XVI secolo.
Il 14 giugno 1830, la flotta francese giunse in vista delle coste africane dalle parti di Algeri, si mantenne prudentemente al largo ed aprì il fuoco contro la torre e il sistema difensivo di Sidi Ferruch (attualmente Sidi Fredj), sito sull’omonima penisola a 27 chilometri circa da Algeri. Poi iniziò lo sbarco, che portò l’esercito francese alla presa di Algeri, il successivo 5 luglio.
Ma, facendo un passo indietro, vediamo come questa impresa poté farsi proprio grazie al coraggioso Cipriani. Mentre i cannoni di bordo ancora colpivano la torre di Sidi Ferruch, per poter poi permettere lo sbarco con rischio minore, Leonetto, sprezzante del pericolo, accostò ardimentosamente con una scialuppa e, giunto a riva, subito si portò in avanscoperta in pieno clima di battaglia, nel tentativo di avvistare le truppe arabe. Mentre iniziavano pericolosamente le operazioni di invasione dal mare, le ricerche ebbero successo e individuò una colonna araba , armata di tutto punto, che veniva in rinforzo dei suoi connazionali per annientare i francesi. Subito si precipitò ad avvertire il comando francese. Scampato pericolo: grazie a questa preziosa informazione si poterono prendere adeguate contromisure e quello stesso giorno 34 000 soldati francesi poterono sbarcare a Sidi Ferruch e quindi entrare in Algeri il 5 luglio, dopo una campagna di tre settimane contro le forze ottomane. Hussein Dey (“Dey” era il titolo dei reggenti di Algeri e Tripoli sotto l’Impero Ottomano, fin dal 1671), che fu l’ultimo dei governatori provinciali ottomani dell’Algeria, accettò di arrendersi in cambio della sua libertà e della promessa di poter mantenere il possesso del suo patrimonio personale. Con questo si segnò la fine di 313 anni di dominio ottomano del territorio e l’inizio di quello francese. Il Generale in Capo disse poi, riferendosi a Leonetto: “Notre première reconnaissance est faite par un gamin”. Terminate le operazioni di sbarco, Leonetto festeggiò la vittoria con lo Stato Maggiore francese, offrendo squisiti Canistrelli e ottimo vino di Centuri. “Voilà un garçon qui promet”, disse il De Bourmont. Una impresa eccezionale insomma, quella che vide Leonetto, non ancora impegnato nella causa di redenzione e unificazione italiana, essere il primo uomo sbarcato ad Algeri in occasione della spedizione.
Conquistata Algeri, gli ufficiali francesi diedero sfogo alla loro cupidigia e prepotenza, spartendosi (trattandole di fatto essi stessi come schiave) le donne imprigionate nel cosiddetto serraglio (la residenza dei sovrani e potenti del mondo islamico, circondata da un vasto giardino cintato). Leonetto, che dovette assistere a tale triste spettacolo, si innamorò invece di una nostra bellissima ragazza tenuta in schiavitù nell’harem (il “luogo riservato” destinato alla vita privata delle donne, le concubine, nel mondo islamico) del Dey Hussein da oltre vent’anni, alla quale era stato imposto il nome arabo di Karim, della quale non si è del tutto certi se fosse d’origine genovese o corsa (forse proprio del Capo Corso). Bisogna sapere infatti che, ancora in quei tempi, dalle coste della Penisola, come da quelle di Corsica, Sicilia o Sardegna, uomini, donne e bambini, venivano “razziati” e fatti prigionieri dai pirati musulmani, a volte per periodi relativamente brevi (alcuni mesi, o alcuni anni, solitamente fino al pagamento d’un riscatto), a volte per il resto dei loro giorni. Condotti ai bagni di Algeri, Tunisi, o Costantinopoli, ridotti in schiavitù e messi alla catena, fungevano da forza lavoro sia nei porti del Magreb, sia nell’entroterra.
Leonetto liberò Karim dal suo stato servile e la condusse con sé a Livorno, dove la presentò al padre con l’intenzione di sposarla. Qui il genitore, purtroppo, manifestò ostinatamente la propria contrarietà alla relazione e alla progettata unione, così duramente che la giovane donna, scoraggiata e convinta di non aver più nulla in cui sperare, si suicidò gettandosi nelle acque del porto. Leonetto rimase pesantemente colpito da questo triste episodio, che lo segnerà per tutta la vita. Mentre era al culmine della disperazione, al fine di distoglierlo dai tenebrosi pensieri che lo assillavano e nel tentativo di fargli dimenticare la perdita di Karim , venne inviato dal genitore nelle lontane Antille per occuparsi degli affari di famiglia. Il Nostro stette qualche mese nell’isola di Trinidad (l’odierna Trinidad e Tobago dove, ancora oggi, c’è una località che si chiama Ortinola) e poi si mise a viaggiare in tutta l’area tropicale. Andò in Giamaica dove passò quindici mesi ed infine giunse nel Nord America dove, primo fra i pionieri, compì una mitica traversata del continente.

Le avventurose imprese – l’America

Anche la vita nel « Nuovo Mondo » fu, per il nostro capocorsino, piuttosto movimentata, soprattutto se ne osserviamo i molteplici appassionanti episodi. In questo periodo egli conduce la vita rude e avventurosa dei primi pionieri americani, un po’ alla David Crockett o alla Buffalo Bill, tanto per intendersi. Percorre quelle immense distese portando un rifornimento di carne essicata appeso alla sella del suo cavallo, lottando contro orsi, lupi e coyote, trattando con gli indiani non sempre pacifici, ai cui pranzi e festeggiamenti partecipa sovente, rischiando la vita nell’attraversamento dei fiumi e affrontando tormente e tornadi. Viaggerà anche, per parecchi mesi, attraverso un paese sconosciuto, rischiando più volte di perdersi nella traversata dei deserti.
Leonetto era di bell’aspetto, robusto, d’alta statura (misurava un metro e ottanta) e le donne non gli mancavano. Il primo soggiorno che fece nel nuovo continente durò circa sei anni, seguito nel corso della sua vita, da altri quattro di varia durata, tanto che, sommando il numero di anni di permanenza , vi passò circa una ventina d’anni. In America ebbe anche a sposarsi, nella maturità dei suoi 47 anni, con una giovane del posto di 23. Da questa unione nacque un figlio che, per quanto si sappia, non è mai venuto in Europa e che è morto nel 1905 senza aver mai fatto parlare di sé.
Nel 1849, Cipriani decise di partire per la California, avendo letto su un giornale che quel paese era un vero e proprio paradiso terrestre, “per il clima temperato, la vegetazione spettacolare e la ricchezza minerale inesauribile”. Il giornale consigliava a chi avesse buone braccia o danaro da investire, di venire in quella terra da sogno, “dove il lavoro era retribuito dalle venti alle cinquanta volte più che altrove, il denaro produceva un interesse del cinque e del sei per cento al mese, e la sicurezza era quanta ve ne può essere nelle grandi capitali europee”. Lo storico e scrittore contemporaneo Francesco Durante, nella sua opera intitolata “Italoamericana”, sottotitolo “Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti” (in due volumi, pubblicati a distanza di qualche anno uno dall’altro, che vanno il 1° dal 1776 al 1880 e il 2° dal 1880 al 1943), ci racconta fra i tanti un episodio gustoso ed emblematico della vita di Cipriani: quando partì per l’America dl porto di Le Havre, il 19 novembre 1851, a bordo dello stesso vapore c’erano la famosa ballerina e attrice teatrale irlandese Lola Montez (nome d’arte di Eliza Rosanna Gilbert, assunta alle cronache per essere stata l’amante del Re Luigi I di Baviera), il patriota ungherese Lajos Kossuth (che partecipò all’attuazione della breve indipendenza dell’Ungheria dall’Impero Austriaco nel 1848) e il Gran Maestro della Massoneria Adriano Lemmi, che lo evitano come la peste in quanto si era sparsa la voce che fosse monarchico e antirepubblicano. Quel battello rappresentava dunque, fin da allora, uno spaccato dei conflitti e delle contraddizioni che non rendono agevole la definizione di americano, ma che sono alla base della grandezza e della potenza di quel grande paese. E’ questa la grande epopea americana del Nostro, ricca di avventure, amori e gesta appassionanti che lui stesso ci ha raccontato nelle sue memorie, pubblicate per la prima volta a Bologna nel 1934, 46 anni dopo la sua morte, col titolo molto indicativo: “Avventure della mia vita”, poi tradotte e pubblicate fino in America. Sono svariati gli aneddoti che ci sono tramandati, come quello risalente al suo primo rientro in Europa, il 1° maggio 1834. Leonetto si imbarcò, nonostante le terribili tempeste che sconvolgevano l’oceano in quel periodo, giungendo il 27 successivo nel porto francese di Le Havre, in pessimo stato di salute a causa dell’inevitabile mal di mare. Diretto in patria, fece tappa a Parigi dove, seguendo nella scelta il richiamo del proprio sangue, alloggiò all’ “Hotel d’Italie”, chiedendo di essere visitato da un medico. Giunse un bel vecchio simpatico, talmente disponibile che riuscì ad aprire il cuore di Leonetto. Egli gli confidò il mai sopito dolore per la perdita dell’amata Karim e parte di quelli passati. Il buon dottore mostrò di comprendere bene la sofferenza del Nostro e lo tranquillizzo, assicurandogli che i suoi erano i classici dolori di chi, avendo un cuore grande e nobile è più portato a soffrire, ma che presto si sarebbe ristabilito. Poi, avendo fin dall’inizio capito, anche dal comune accento, che non aveva a che fare con un francese, gli disse in corso: “Ma voi un site mica francese!”, “No! Iitalianu, sò nato in Corsica e a miò famiglia è stabilita in Livornu”. Prosegui ancora, specificando quale fosse il suo paese natio in Corsica, la sua casata e finanche di essere figlio del Conte Matteo. A quella rivelazione, il dottore sbiancò in volto e sgranò gli occhi per l’emozione e colmo di gioia lo abbracciò come se avesse ritrovato un figlio. Si trattava del corregionale dottor Francesco Carlo Antommarchi, di Morsiglia nel Capo Corso, già medico personale di Napoleone I Bonaparte, che aveva curato nell’esilio dell’isola di Sant’Elena e al quale aveva poi chiuso gli occhi per l’ultima volta. Il dottor Antommarchi, oltretutto, era amico intimo di Matteo Cipriani, al quale doveva per altro la sua reputazione e la sua fama, in quanto a suo tempo il Conte Matteo l’aveva raccomandato come ottimo medico alla signora Letizia madre dell’Imperatore Bonaparte. E’ facile capire tanta gioia da parte del vecchio medico capocorsino, nel ritrovare casualmente il figliolo del suo antico amico di giovinezza.
Come abbiamo accennato, Leonetto, nel corso dei cinque distinti soggiorni più o meno lunghi in America, svolse mestieri ed ebbe incarichi anche diversissimi tra loro. Nel 1850, ad esempio, quando un consolato del Regno di Sardegna venne aperto in California, nella città di San Francisco, la direzione fu affidata proprio a lui. Cipriani racconta ancora di come una volta ebbe la tentazione di comprare, nel territorio di quella stessa città, alcuni terreni di campagna, nel posto dove poi sarebbe sorta l’odierna centrale Union Square (piazza dell’Unione). Tentazione forte, perché riteneva che in dieci o vent’anni quei terreni avrebbero avuto un valore mille volte maggiore. Quanto aveva ragione! Infine, quando Cipriani si decise per l’acquisto, ha pronta una lettera di credito di 500 sterline, ma il banchiere che gliela avrebbe dovuta pagare fallisce e fugge, facendogli perdere un’occasione irripetibile.
Cipriani fu tra i primissimi coloni della cittadina di Belmont (nella baia di San Francisco, a poca distanza dalla città). Qui, nel 1853, costruì un castello al centro di una vasta proprietà fondiaria, che estese nel 1857 e 1859. Abbandonò la cittadina nel 1862, quando venne insignito di importanti riconoscimenti da parte del Regno d’Italia (proclamato l’anno precedente) e fu nominato al Senato italiano, vendendo il castello e tornando in patria. Il nome del Colonnello Leonetto Cipriani è ancora oggi ben noto in Belmont, dove sia una scuola che un ampio viale del centro portano il suo nome.
Quando iniziarono le prime immigrazioni di coloni nel Territorio dell’Oregon, il Conte Leonetto Cipriani, intraprese la traversata dei vasti territori americani per condurre in quei luoghi inesplorati bestiame e rifornimenti. Ma le carovane che guidava erano dirette anche in altri territori. Nel maggio 1853, l’avventuroso Leonetto guidò, partendo dalla cittadina di Westport (Connecticut, stato del nord degli U.S.A., sulla costa atlantica), una grande carovana diretta in California, che contava ben 11 carri, con 500 mucche, 600 buoi, 60 cavalli e 40 muli, che gli erano costati 35.000 dollari. Era certo che i profitti sarebbero stati enormi, e calcolò di poter guadagnare 200.000 dollari non appena giunto alla meta, anche se avesse perduto la metà delle bestie e dei beni: un profitto di più del 600 per cento.
Nelle cronache dell’epoca, Leonetto viene rappresentato come un capo di carovana ardito e autoritario, che procedeva attraverso pianure e montagne ancora sconosciute. Grandissima è la varietà di argomenti quando si parla di lui in America: straordinarie avventure, scene comiche, riflessioni, viaggi in barca e in treno, uomini d’affari disonesti e così via. Gli episodi emozionanti e le avventure abbondano, rendendo la sua vita di esploratore del Nuovo Mondo affascinante e mai noiosa. Una volta, attraversando un fiume a bordo d’una canoa, alla quale aveva legato dietro il proprio cavallo, cadde nelle acque vorticose poiché l’animale spaventato aveva rovesciato l’imbarcazione, salvandosi per un pelo dall’annegamento. In altra occasione, mentre guidava una carovana in un territorio particolarmente disagevole, i suoi uomini, presi dal panico, volevano rinunciare abbandonando l’impresa ed egli dovette riunirli e convincerli a proseguire il viaggio, dopo un discorso appassionato. Una volta un terremoto mise in fuga tutto il suo bestiame ed un’altra più di cento capi finirono nel fondo d’un precipizio sotto ai suoi occhi. Alcuni episodi sono anche procaci d’ansia, tanto sono imprevedibili nel loro esito, come quello in cui, mentre stava per essere attaccato da una tribù di feroci indiani, avanzò a piedi e disarmato verso i guerrieri pellerossa già posizionati in posizione d’attacco, dirigendosi dritto dal capo tribù che, colpito da quell’atto di coraggio, smontò da cavallo e gli strinse la mano. Vanno notati anche gli incontri insoliti, come quello con un ufficiale disertore della Marina Nazionale francese, che viveva come un eremita in una piccola casa da tre anni, o con il figlio naturale del Maresciallo nizzardo Andrea Massena, fuggito dalla sua famiglia adottiva. Durante uno dei suoi viaggi in America, visitò anche la terra dei Mormoni (seguaci della confessione religiosa creata da Joseph Smith nello stato dello Utah, dove i suoi membri fondarono Salt Lake City), che descrisse a lungo nei modi e nella vita. L’ultimo viaggio di Cipriani in America fu nel 1865, quando partì ancora per la California, con l’intento di aprirvi delle miniere, dato che in quel periodo vi era stato scoperto l’oro.
Una storia affascinante, dunque, con un protagonista che, almeno per certi versi, possiamo definire « fuori dalla norma ». Dobbiamo dire che ciò che colpisce di più è il carattere di quest’uomo straordinario, così come ci appare nei suoi racconti ed è bello vedere in lui il tratto caratteriale dei nostri antenati, in particolare di quello corso, soprattutto nel disprezzo del pericolo, nella riservatezza, in una certa altezzosità, nella suscettibilità e disponibilità a vendicare un insulto.

L’epopea patria, verso l’Italia nazione

A partire dal 1834, tornato a Livorno dopo il suo primo soggiorno americano, Leonetto iniziò la sua fervente partecipazione alla lotta per la redenzione della Patria, anche con l’impegno politico, quello amministrativo nella “cosa pubblica” e stabilendo contatti col governo del Granduca di Toscana che era in mano ai democratici. Il 25 agosto 1848, Cipriani fu nominato dal regnante Commissario Straordinario per Livorno, con l’incarico di placare il popolino in pieno fervore rivoluzionario. Giunto in città con una piccola truppa, stante la drammatica situazione dell’ordine pubblico, che vedeva la città in preda all’anarchia, i militi si videro costretti ad aprire il fuoco. Fu questo un terribile episodio: la sera del 2 settembre, un tiro di mitraglia strappò un braccio dalla statua in legno di Sant’Antonio, collocata in una nicchia sulla facciata della chiesa di Santa Giulia. I tumulti proseguirono e Leonetto, il successivo giorno 5, fu costretto a lasciare la città. Quaranta giorni dopo, il 13 ottobre, un carro passava occasionalmente davanti alla predetta chiesa e, avendo inciampato il cavallo che lo tirava, si rovesciava. Accorse gente e, constatato che si trattava della carrozza del Commissario Straordinario Cipriani, gli appiccò il fuoco dopo averne staccato il ronzino. La statua era sempre nella sua nicchia con la sua mutilazione: ci furono subito quelli che proclamarono a gran voce come fosse stato il santo stesso ad essersi vendicato! Su questa scia, qualche giorno dopo, un manifesto affisso sui muri di Livorno informava dei fatti col titolo: “Miracoloso Avvenimento accaduto in Livorno nel giorno 13 ottobre 1848”. Molto probabilmente, quel giorno Leonetto non era in città, forse manco a Firenze.
In effetti, il Granduca l’aveva mandato a Torino con una lettera per Carlo Alberto, Re di Piemonte e Sardegna, nella quale si chiedeva aiuto per sottomettere i rivoltosi livornesi. Leonetto era giunto a Torino il 22 settembre, era stato invitato a cena dal sovrano, ma questi, nei colloqui, non aveva promesso nulla, dato che, all’epoca, aveva ben altre gatte da pelare: il suo governo aveva infatti dichiarato guerra all’Austria. Era la prima guerra d’indipendenza italiana. In Toscana, come in altre regioni d’Italia, si formavano milizie per unirsi ai fratelli piemontesi. Volontari giungevano da ogni parte del Paese diviso, anche dalla Corsica. Cipriani partecipò anch’egli a questa campagna di guerra e, nelle sue memorie, racconta le vicende eroiche di questa armata rivoluzionaria, fatta di un miscuglio di gente d’ogni sorta, ragazzi, studenti, professori, umili braccianti e sacerdoti, tutti accomunati dall’amore per la Madre Patria Italia e pronti a dare la vita per essa, come avvenne ad esempio nella battaglia di Curtatone e Montanara (Mantova, Lombardia), dove scorse il sangue di tanti ragazzi d’Italia (tra i quali, non scordiamolo mai, anche di volontari corsi). Lo scontro si svolse il 29 maggio 1848 e vide contrapposti agli occupanti austriaci, condotti dal Maresciallo Radetzky, Comandante Supremo delle forze austriache, ai piemontesi, aiutati per l’appunto da un buon numero di giovani volontari. Fra questi ultimi, negli scontri andarono perduti, tra caduti, feriti e prigionieri, circa 1.700 ragazzi.
Purtroppo, la prima guerra d’indipendenza fu una amara sconfitta per un’Italia divisa e debole. Nel 1849, il 23 marzo, l’armata piemontese veniva disfatta a Novara (Piemonte). Il Re Carlo Alberto rinunciò al trono e lasciò la corona al figlio, Vittorio Emanuele, che firmò la pace di Milano, lasciando all’Austria la Lombardia e il Veneto. A partire da questo momento, però, Re Vittorio Emanuele intraprese una intensa opera di riorganizzazione del Piemonte e del suo esercito e col suo Primo Ministro, il Conte Camillo Benso di Cavour, decise di tentare la liberazione dell’Italia con l’aiuto di nazioni straniere più forti e bene armate. Fu così che, nel 1859, la Francia e il Regno di Piemonte insieme dichiaravano guerra all’Austria. E’ la seconda guerra d’indipendenza italiana. Cipriani, che si trovava in America, appena appresa la notizia tornò nuovamente in patria, si precipitò a Torino e, d’accordo con il Re e il governo piemontese, fu assegnato allo Stato Maggiore francese, ove rimase sino all’armistizio di Villafranca (Verona, Veneto), concluso l’11 luglio 1859 dagli Imperatori Napoleone III di Francia e Francesco Giuseppe I d’Austria, con il quale si posero le premesse per la fine della guerra. Questo accordo, in realtà, fu la conseguenza d’una decisione unilaterale della Francia che vedeva il pericolo che il conflitto si allargasse all’Europa centrale. L’armistizio di Villafranca causò le dimissioni del Presidente del Consiglio piemontese Camillo Benso di Cavour, che lo ritenne una violazione del trattato di alleanza franco-piemontese. Quest’ultimo prevedeva infatti la cessione dell’Austria al Piemonte dell’intero Lombardo-Veneto, diversamente dai termini dell’armistizio che disposero la cessione della sola Lombardia.
Intanto, la causa di unità nazionale italiana progrediva su altri versanti. Gli eventi videro, il 28 settembre 1859, i rappresentanti di Toscana, Romagna, Modena e Parma trattare l’abolizione delle dogane tra i loro stati e l’adozione di una moneta unica, ed impostare i futuri provvedimenti per unire l’Italia sotto il Regno di Vittorio Emanuele II. Nel 1859 i ducati padani chiesero l’annessione al Piemonte, ottenendo l’invio di Commissari Regi di nomina piemontese, ma, con l’armistizio di Villafranca, voluto da Napoleone III e considerato dagli italiani e dallo stesso Primo Ministro Camillo Benso di Cavour, che per questo si dimise, un tradimento, il Regno di Sardegna dovette ritirare tali Commissari, per favorire il ritorno dei sovrani spodestati. Ma nel momento in cui il governo piemontese rese esecutivo il ritiro, le popolazioni dell’Italia Centrale misero in piedi dei governi provvisori a favore dell’unione.

Un capocorsino governatore della Romagna

Bologna e le Romagne furono affidate dal Re Vittorio Emanuele II a Leonetto Cipriani, quale Governatore Generale, con il preciso compito di preparare l’annessione al Piemonte. Il progetto si attuò quando, tornato al potere Cavour il 20 gennaio 1860, furono promossi i plebisciti (11-12 marzo) attraverso i quali Emilia e Romagna furono annesse al Piemonte.
Il 1860, anno dell’unione al primo germoglio di Italia unita, rappresentò una svolta per Bologna e per la sua popolazione. Sotto la guida del governo illuminato di cui Leonetto aveva tracciato le basi, il popolo cominciò finalmente a esprimere in ogni campo le sue grandi potenzialità. La città nacque a nuova vita, non solo sul piano della produttività artigianale e commerciale, ma anche su quello della creatività intellettuale. Fiorirono dappertutto iniziative ed eventi di natura musicale, artistica, teatrale e lirica. La voglia di vivere e di divertirsi coinvolse tutti gli strati sociali.
Come Governatore della Romagna e capo del Consiglio di Bologna, da agosto a novembre, Leonetto si trovò a mediare fra le varie anime degli insorti, cercando di guidarle verso una visione monarchica dell’Italia, ovvero verso l’idea di unione nazionale italiana unificata tramite la monarchia piemontese. Per tre mesi dovette resistere alle differenti visioni politiche dei più estremisti in seno ai mazziniani e ai garibaldini, finendo inevitabilmente per dimettersi. A Bologna, l’Arcivescovo era un corregionale corso, il bastiaccio Cardinale Michele Viale Prelà, già nunzio del Papa Pio IX a Vienna. Le relazioni tra i due, benché figli della stessa Isola, non furono mai facili, anche perché Cipriani – che aveva ricevuto ordini in tal senso e aveva precise responsabilità di governo e di tenuta dell’ordine pubblico – aveva dovuto stabilire una sorta di censura preventiva sulle stesse lettere pastorali dell’Arcivescovo. Accese discussioni durarono due mesi, fino a quando Cipriani scrisse al Cardinale Viale Prelà: “Tutti gli scritti dati alla stampa che porteranno la vostra firma o quella del vostro vicario generale, saranno franchi di censura”. L’impegno di Cipriani nel governo delle Romagne si profuse oltre ogni limite e in ogni campo, tanto che il Re Vittorio Emanuele II, diventato sovrano d’Italia, lo ricompensò con i gradi di Generale Onorario della nuova armata, col titolo nobiliare di Conte e, l’8 ottobre 1865, con quello di Senatore del Regno, nonché con le alte onorificenze della Gran Croce dell’Ordine di San Maurizio e dell’Ordine di San Lazzaro. Ma, oramai stanco degli impegni di governo, Leonetto si staccò dalla politica, e si ritirò nelle sue proprietà di Livorno.
Fece ancora due soggiorni in America, dove nel frattempo la moglie era morta, e, al ritorno, si stabilì definitivamente nella sua amata e mai dimenticata Ortinola di Centuri, nell’incantevole Capo Corso, nel castello che fece costruire in stile medioevale e che assunse il nome di Bellavista, contentandosi di muoversi solo per qualche scappata a Roma o in Toscana per affari.
In Corsica si risposò con la capocorsina Maria Napoleoni. Il 10 maggio 1888, solo qualche ora prima di morire – aveva 76 anni – fece venire il notaio per redigere il testamento, dove chiedeva che, nel Senato italiano, di cui faceva parte, fosse data lettura della lettera che il Re Vittorio Emanuele II gli aveva scritto nel 1860 per ringraziarlo, lasciando disposizione per essere seppellito nella tomba di famiglia del locale camposanto, con tutte le onorificenze acquisite, tra la bandiera corsa e quella italiana.
Fu così che rese l’anima al Signore e usciva dalla turbinosa scena terrena, con le sue luci e le sue ombre, questo che resta comunque un grande figlio della Corsica.

Related Post

One thought on “Leonetto Cipriani, l’affascinante storia d’un avventuroso capocorsino”
  1. Una curiosità:chissà se questo eroe riposa ancora tra la bandiera corsa e quella italiana come dispose nel testamento…

Comments are closed.