Si è celebrata ieri la “Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue Locali” che ricorre il 17 gennaio in tutta Italia attraverso la rete delle Pro Loco, su iniziativa dell’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia. Negli ultimi anni i dialetti sono stati oggetto di un interesse crescente, che ha toccato anche i mondi delle serie TV e dei media sociali. Una riscoperta legata alla loro natura identitaria, di espressione della storia e della cultura di un territorio.
La giornata è stata istituita nel 2013 con il preciso intento di sensibilizzare istituzioni e comunità locali alla tutela e valorizzazione di questi patrimoni culturali; attività espletata in piena armonia con le direttive dell’Unesco presso cui Unpli è accreditata dal 2012, quale consulente del comitato intergovernativo previsto dalla convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003.
Quest’anno anche la Disney ha deciso di festeggiare la ricorrenza con un numero speciale del celeberrimo settimanale Topolino. Il numero 3.608 del giornalino ha infatti cinque varianti diverse. Una in italiano e poi quattro in altrettanti dialetti regionali: milanese, napoletano, fiorentino e catanese, distribuiti solo localmente e divenuti in pochi giorni introvabili oggetti da collezione.
Come al solito la Giornata si porta dietro polemiche e diatribe su cosa sia “lingua” e cosa “dialetto”. Il napoletano è una lingua e il bergamasco è una lingua? E quale sarebbe il motivo? Il numero di parlanti, o la presenza di una letteratura, o di una forma di ortografia, oppure di una grammatica? Niente di tutto ciò.
Se ci si riferisce al dialetto come lingua parlata localmente (e non come variazione interna ad una lingua) allora la distinzione non è da ricercarsi nelle caratteristiche morfosintattiche o nella diffusione, ma nel ruolo sociale. Ciò che distingue il francese dal bretone o l’italiano dal mantovano è semplicemente il ruolo che questi idiomi ricoprono e di conseguenza la loro capacità di esprimere i vari domini. Non si può parlare di filosofia, di medicina o di argomenti tecnico-scientifici in salentino, ma lo si può fare in italiano, in tedesco, in inglese, in spagnolo o in cinese mandarino, per esempio. Perché queste lingue, per scelte sostanzialmente storico-politiche, sono state scelte e sviluppate per trattare di qualunque dominio, e hanno di conseguenza sviluppato il lessico necessario.
Non c’è niente di intrinsecamente superiore in una delle cosiddette lingue rispetto ai cosiddetti dialetti. Semplicemente la storia è andata così, le scelte sono ricadute su certi idiomi e non su altri. O, per dirla con la sociolinguistica, “la lingua è un dialetto che ha fatto carriera”.
Si può dire che il còrso è stato a lungo un “dialetto”, con l’italiano come “lingua tetto” prima e il francese poi. Il riacquistu degli anni 1970 e gli anni successivi ne hanno promosso l’uso amministrativo e, possiamo dire, l’hanno “trasformato in una lingua”. Questo naturalmente non è direttamente correlato con la sua diffusione. C’è chi si batte, giustamente, per la co-ufficialità col francese, ma questo non sarebbe sufficiente a migliorarne la diffusione. Purtroppo il corsu era molto più diffuso e parlato quando era un “dialetto” che da quando è stato percepito e riconosciuto come “lingua corsa”.
In Italia i “dialetti” sono stati a lungo, e fino a una sessantina d’anni fa, la vera e spesso unica lingua parlata nelle case degli italiani. La storia d’Italia (anche pre-unitaria e in territori come la Corsica mai entrati nello stato italiano) è fatta di diglossia tra dialetto locale e lingua alta, il toscano poi divenuto italiano. E queste lingue locali hanno portato un grande contributo alla stessa lingua italiana, arricchendolo di termi, proverbi ed espressioni.
Dunque lunga vita ai dialetti! Lunga vita alla lingua corsa! E anche all’italiano, naturalmente! 😉