Quella che oggi definiamo lingua Còrsa ha un’origine molto particolare: la «consapevolezza culturale» dei suoi parlanti è passata in meno di 2 secoli da un sentimento embrionale ma diffuso di italianità – a partire dal celebre Discorso tenuto da Pasquale Paoli prima della battaglia di Ponte Nuovo1 contro i francesi nel 1768, passando alla memorabile risposta («noi siamo Italiani») che gli abitanti del cantone di Belgodere diedero nel 1823 all’ispettore dell’Accademia francese2, venuto a promuovere la lingua di Molière in Corsica – alla creazione di una nuova «identità isolana» maturata nei decenni che seguono il Secondo conflitto mondiale, quando JB Marcellesi3 sviluppa il concetto di “lingua polinomica” per terminare con Jacques Thiers4 che adotta per il Còrso moderno la definizione di “langue par elaboration“, concetto a sua volta mutuato dalle intuizioni del sociolinguista tedesco Heinz Kloss5.
Una lingua per elaborazione (in tedesco Ausbau = sviluppo, costruzione a distanza) è la variante di una Lingua che inizia a distinguersi dal suo modello-base: spesso nasce su impulso di una nuova Autorità statale appena giunta su un dato Territorio, allo scopo di costruire una (altrettanto) nuova identità nazionale, con una propria ortografia, una propria grammatica e un ampio vocabolario.
A livello puramente linguistico, esistono due tipi di lingue Ausbau:
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Dialetti di una lingua-Tetto normalizzati e regolarizzati entro uno standard letterario, come nei casi di Olandese e Afrikaans, Tedesco e Lussemburghese, Ceco e Slovacco, Hindi e Urdu.
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Denominazioni puramente politiche della stessa lingua-Tetto senza grandi differenze dialettali. Questo fenomeno si riscontra fra le 4 varietà del Serbo-Croato, tra Ucraino e Ruteno, tra Rumeno e Moldavo, tra Bulgaro e Macedone.
Il concetto di lingua Ausbau è vicino a quello di lingua polinomica, espressione che designa un insieme di varietà linguistiche che divergono nei loro caratteri fonetici e sintattici, ma che sono considerate dai parlanti come costituenti un tutt’uno molto coerente: il Còrso viene considerato dai suoi parlanti come un unico idioma, nonostante le grandi differenze esistenti fra una parlata e l’altra dell’isola: nel 1981 Ghjacumu Fusina e Fernand Ettori scrivono per Scola Corsa che «a Sud di Aiaccio forse ci sorprenderà notare che il rapporto più stretto non è con il Sardo, pur così ravvicinato nello spazio, ma con i dialetti dell’Italia meridionale, in particolare il Calabrese. Un còrso meridionale in Toscana sarà identificato come calabrese; un còrso settentrionale nella Sardegna centrale sarà identificato come italiano […]»6.

Ancora nel 1843 Salvatore Viale, padre della moderna Letteratura in còrso con la Serenata di Scappino contenuta nella Dionomachia (1817) poteva dichiarare nella sua raccolta di Canti Popolari che «Dalla lettura di queste canzoni si vedrà che i Corsi non hanno, né certo finora aver possono, altra poesia o letteratura, fuorché l’italiana […] E la lingua côrsa è pure italiana; ed anzi è stata finora uno dei meno impuri dialetti d’Italia»7.
A seguire, negli stessi anni, il ministro della repubblica francese (oriundo còrso) Alexandre Sanguinetti definì l’idioma isolano un «toscano in bocca romana»8; e un grande intellettuale come Niccolò Tommaseo parlò del Còrso come del «dialetto italiano più schietto e meno corrotto» fra quelli del Mediterraneo – l’idioma di Dante era infatti diffuso a metà ‘800 come lingua “ufficiale” in Grecia (Repubblica delle Isole Jonie9) nell’arcipelago di Malta (sotto dominio britannico) e in Dalmazia, e come “lingua franca” (denominata sabìr) in Tunisia, Algeria e Marocco10.
Nel 1900 si sviluppa, alla fine in Corsica, un diffuso “senso di appartenenza” a favore della Francia e delle sue istituzioni; nello stesso lasso di tempo (e specialmente dopo il Primo conflitto mondiale) il sentimento di simpatia e fratellanza verso la Penisola italiana perde ogni declinazione etno-nazionale per acquisire una sfumatura sempre più orientata verso il mero aspetto linguistico-culturale.
Fautori di questa nuova “interpretazione della Lingua” saranno, oltre (ovviamente) ad alcuni intellettuali e scrittori dell’isola, anche grandi linguisti di fama europea, il cui «parere scientifico» sottolineerà i vantaggi, per la moderna lingua Còrsa, di un maggiore contatto con la vicina sponda tirrenica, al fine di mantenere e valorizzare le tante affinità ed i profondi legami storici ancora esistenti con la lingua Italiana.
Si tratta di ristabilire un «rapporto secolare» sicuramente affievolito negli ultimi decenni, ma mai del tutto estinto: cito fra questi intellettuali anche Pascal Marchetti, autore isolano che dopo aver creato nel 1971 con Geronimi (nel libro Intricciate è cambiarine) la «grafia ufficiale» ancora oggi utilizzata – di fatto allontanando il Còrso scritto dalla lingua di Dante – è poi tornato sui suoi passi, pubblicando due opere di importanza capitale nel suo percorso di riavvicinamento alla lingua italiana: La Corsophonie, un idiome à la mer nel 1989 e il dizionario trilingue L’usu Corsu nel 2001. Sulla scia di Marchetti, cito in ordine cronologico: i tedeschi Gerhard Rohlfs (L’italianità linguistica della Corsica 1941, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti 1966 e Fra Toscana e Corsica 1972) e Max Leopold Wagner (La lingua Sarda. Storia, spirito e forma 1950), la studiosa MJ Dalbera-Stefanaggi (Essais de linguistique corse 2000) Mathée Giacomo-Marcellesi (La questione della lingua corsa 2002) lo svizzero Olivier Durand (La lingua còrsa 2004) per finire con il compianto Paul Colombani (direttore fino al 2023 della rivista còrsa in lingua italiana A Viva Voce).
Questa premessa era necessaria per arrivare all’oggetto del presente articolo: se fino a metà Novecento nessuno aveva mai messo in discussione l’appartenenza dell’Isula Bella al mondo culturale italiano – tanto che la Legge Deixonne sulle minoranze linguistiche varata nel 1951 escludeva il Còrso dalle lingue regionali di Francia, in quanto «dialetto dell’Italiano, lingua il cui insegnamento è già previsto nella scuola secondaria»11 – perché mai nel lontano 1300 Dante Alighieri, nel suo De vulgari Eloquentia, non cita anche la Corsica fra le regioni italiane da cui “trarre ispirazione” per la moderna lingua letteraria?
Senza dilungarmi troppo in spiegazioni tecniche, preciso che con questo «Trattato di Eloquenza» in latino, Dante si proponeva di cercare un volgare illustre, ovvero una parlata italiana che potesse assumere i caratteri di “Lingua alta” (cardinale, illustre, aulica e curiale) all’interno del variegato panorama culturale della Penisola.
L’opera si interrompe al XIV capitolo del secondo libro – il progetto iniziale prevedeva 4 tomi. L’inizio del primo Libro tratta l’origine delle lingue e le loro tipologie, affrontando la ricerca di un idioma Letterario unitario: la famosa Questione della Lingua12. I paragrafi a seguire offrono preziose indicazioni sulla realtà linguistica del primo Trecento. Dante vi classifica i dialetti italiani (volgari municipali) e cerca di individuare quello che abbia le caratteristiche migliori per imporsi come Lingua letteraria. Nella sua rassegna, egli adotta come “tratto divisorio” la catena dei monti Appennini, mettendo 7 idiomi da un lato, e sette dall’altro:
[capitolo X, libro I, paragrafo 6]
«Ora in entrambe queste due metà [di Italia, divisa in verticale dagli Appennini] e relative appendici, le lingue degli abitanti variano: così i Siciliani si diversificano dagli Apuli, gli Apuli dai Romani, i Romani dagli Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani dai Genovesi e i Genovesi dai Sardi; e allo stesso modo i Calabri dagli Anconetani, costoro dai Romagnoli, i Romagnoli dai Lombardi, i Lombardi dai Trevigiani e Veneziani, costoro dagli Aquileiesi e questi ultimi dagli Istriani. Sul che pensiamo che nessun italiano dissenta da noi».

Dante definisce Lingua volgare «quel linguaggio che il bambino impara dalla balia», contrapposto alla «Gramatica» (termine con cui Alighieri indica il Latino) vista come lingua immutabile e ritenuta un prodotto artificiale delle classi dirigenti. L’autore afferma la maggiore nobiltà della lingua volgare, perché è la lingua “naturale”, la prima ad essere pronunciata nella culla da ogni uomo: la novità dantesca sta poi anche nell’individuare gli strumenti del volgare come adatti ad occuparsi di qualsiasi argomento, dall’amore alle virtù e alla guerra.
Nel computo delle 14 parlate della Penisola prese in esame per trovare questo “volgare illustre”, Alighieri annovera senza indugi la Sardegna e la Sicilia, senza dimenticare due regioni di confine come l’Istria e il Friuli:
[capitolo X, libro I, paragrafo 5]
«[…] Quanto al Friuli e all’Istria, non possono appartenere che all’Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna, appartengono senza dubbio all’Italia di destra, o piuttosto vanno associate ad essa».
Il giudizio che Dante ha per questi idiomi volgari è alquanto duro:
[capitolo XI, libro I, paragrafi 6-7]
«E dopo ancora, setacciamo via Aquileiesi [Friuli] e Istriani, che con quel loro accento ferino pronunciano: Ces fas-tu? E assieme a questi buttiamo via tutte le parlate montanare e campagnole […] che col loro accento aberrante da tutte le regole suonano in modo da far a pugni col linguaggio di chi abita nel centro delle città.
Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro, dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la Gramatica [Latino] come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus».
Precisiamo subito che Dante non è per nulla “tenero” neanche con i suoi conterranei toscani – e tanto meno lo è con Genova:
[capitolo XIII, libro I, paragrafi 5-6]
«Perciò se esaminiamo le parlate toscane, se valutiamo come egualmente gli individui più onorati hanno voltato le spalle alla loro, non resta più alcun dubbio che il volgare che cerchiamo è altra cosa da quello a cui può arrivare il popolo di Toscana.
Qualcuno ora potrebbe pensare che quanto abbiamo affermato per i Toscani non vada ripetuto per i Genovesi: basta allora che si metta bene in testa questo, che se i Genovesi a causa di un’amnesia perdessero la lettera Z, dovrebbero o ammutolire completamente o rifarsi una nuova lingua. La Z infatti fa la parte del leone nella loro parlata, e si tratta di una lettera che non si può pronunciare senza molta durezza».
Men che meno Alighieri si mostrerà generoso nel giudizio su due regioni “di frontiera” quali erano percepite già nel 1300 il Piemonte e il Trentino:
[capitolo XV, libro I, paragrafo 7]
«Quanto alle rimanenti città situate ai confini dell’Italia […] desiderosi come siamo di deporre il setaccio, e per dare uno sguardo veloce alla rimanenza; diciamo che le città di Trento e di Torino […] sono situate talmente vicino ai confini d’Italia che non possono avere parlate pure; tanto che, se anche possedessero un bellissimo volgare […] per come è mescolato coi volgari di altri popoli dovremmo negare che si tratti di una lingua veramente italiana. Perciò, se quello che cerchiamo è l’italiano illustre, l’oggetto della nostra ricerca non si può trovare in quelle città».
Neanche la moderna capitale d’Italia, quella Roma “faro del mondo antico” e “centro assoluto di civiltà”, risulta per Dante avere una favella degna di essere celebrata:
[capitolo XI, libro I, paragrafo 2]
«E dunque, siccome i Romani ritengono di dover essere messi in testa a tutti […] non andranno presi in considerazione in nessuna precettistica sull’eloquenza volgare. E diciamo pure che quello dei Romani – che non è neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo – è il più brutto di tutti i volgari italiani: il che non meraviglia, dato che anche quanto a bruttura di abitudini e fogge esteriori appaiono i più fetidi di tutti. Eccoli infatti dire: Messure, quinto dici?»
Tralasciamo i giudizi sprezzanti che Dante riserva agli altri idiomi sparsi per la Penisola – Marchigiano, Pugliese, Lombardo, ecc. – per ricordare infine gli apprezzamenti verso il Siciliano usato dai poeti alla corte di Federico II e verso il Bolognese utilizzato con maestria dal cantore del Dolce stil novo13 Guido Guinizelli, che a giudizio di Alighieri sono riusciti a distanziare, con alcune scelte raffinate, la lingua poetica dal comune parlato.
Dante si è forse dimenticato della Corsica? eppure l’isola era ben presente al sommo poeta, tanto da venire citata in due passi della Divina Commedia: la prima volta indirettamente nel XXVI canto dell’Inferno, quando Ulisse la cita fra le terre che ha toccato con la sua nave fra «l’altre che quel mare [Mediterraneo] intorno bagna», mentre la seconda è nel XVIII canto del Purgatorio, quando la Luna «correa contra ‘l ciel per quelle strade / che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma / tra Sardi e’ Corsi il vede quando cade» alludendo al Sole, che nel mese di novembre all’altezza di Roma tramonta nella direzione delle Bocche di Bonifacio, quando la Luna si trova nella costellazione del Sagittario.
Perché allora non citarla propriamente fra i 14 volgari della Penisola? la soluzione più plausibile venne data oltre un secolo fa dal geografo e dantista Paolo Revelli14, il quale sostenne che Alighieri riprendeva la divisione augustea delle Regioni italiane, quando la Corsica era una dipendenza della Sardegna. Effettivamente per circa otto secoli, dal 238 a.C. fino al primo medioevo, Corsica e Sardegna sono rimaste unite in un’unica provincia.

La Corsica, afferma il Revelli, «è geologicamente un tutt’uno con l’antica Ichnusa. A questa unità geologica corrisponde talvolta – come nell’età dei Cesari – l’unità amministrativa. E questo spiega come Dante non consideri, nella sua divisione regionale d’Italia, come provincia a sé l’isola che Pipino [il Breve] donò nel 775 alla Santa Sede. Per Dante, come per la divisione augustea, la Corsica è un’appendice della Sardegna»15.
Non si tratterebbe di “scarsa considerazione” da parte del Sommo poeta dunque, ma di uno schema amministrativo ancora così radicato nell’immaginario Medievale da andare oltre le divisioni politiche che pure numerosi contendenti (Pisa e Genova prima, regno d’Aragona poi) avevano imposto alle 2 grandi isole del Tirreno, immaginandole ancora unite all’interno di un’unica Provincia romana, in cui la Sardegna aveva la parte del Leone.
Quale che fosse il giudizio di Dante mentre girava la Penisola alla ricerca di questo fantomatico Volgare illustre, nulla può cancellare questo semplice dato di fatto: ancora oggi, la relazione esistente fra la zona Nord della Sardegna (Sassari, Gallura) ed il Sud isolano (Sartena, Porto Vecchio, Propriano) rimane forte quanto quella fra Bastia e Capo Còrso con le vicine Pisa e Livorno, rendendo l’Alto Tirreno un continuum culturale e linguistico che i moderni stati nazionali hanno sicuramente allentato, ma non spezzato del tutto – come questa rivista sta ancora oggi a dimostrare.
2 Pascal Ottavi, Le bilinguisme dans l’école de la République? Le cas de la Corse, Aiaccio 2008, p.551
6 Ghjacumu Fusina e Fernand Ettori, Langue corse, incertitudes et Paris, Aiaccio 1981, p.12
7 Salvatore Viale, introduzione dei Canti popolari corsi, Bastia 1843, p.7
8 Jean-Paul Giovannoni, Lingua còrsa e italiana: le maggiori differenze lessicali, articolo apparso il 2 ottobre 2019 su A Viva Voce e riprodotto su CO al presente indirizzo: https://www.corsicaoggi.com/sito/lingua-corsa-e-italiana-differenze-lessicali-maggiori/?doing_wp_cron=1742844298.2567870616912841796875
10 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-lingua-franca-del-mediterraneo-aspetti-storici-e-prospettive-sociolinguistiche/
11 Fiorenzo Toso e Antonio Torchia, Corsica. Città, borghi e fortezze sulle rotte dei genovesi. La storia, le parole, le immagini, Genova 2003, p.17
15 Adolfo Cecilia, volume 2 (Cim-Fo) dell’Enciclopedia Dantesca (a cura di Giorgio Petrocchi e Bosco Umberto) Roma 1970, p.253 voce “Corsica”.
Alessio Vic Stretti
Laureato in "Conservazione dei Beni Culturali" presso l'Università di Genova, il suo amore per la Corsica nasce nel 2005, dopo aver girato ogni angolo dell'isola in cerca dei suoi tesori naturali e artistici. La sua poesia in lingua corsa «Una preghèra da Genuva à l'isula bella» (presentata al concorso “Tropea, onde mediterranee” del 2009) e la sua Tesi di Laurea «L'architettura in Corsica e le regioni tirreniche fra l'Alto Medioevo e il XIV secolo» (2007) appaiono sulla rivista online A Viva Voce diretta da Paul Colombani.