Opinioni

Qui casca l'asino

Largo spazio è dedicato alla questione della lingua con un’intervista di Pascal Marchetti in difesa dell’italiano, “la nostra lingua storica”, nella quale il nostro collaboratore ribadisce le nostre posizioni spiegando come l’italiano sia di casa in Corsica e possa aiutare a mantenere il còrso e, in senso opposto, un’intervista di Dumenicantone Geronimi e due articoli di Ghjermana de Zerbi e di Ghiuvan Ghjaseppu Franchi.
Non è possibile ovviamente riassumere qui tutto il dibattito. Pensiamo d’altronde di avere già dato molte risposte in vari articoli della rivista(1). Ci accontenteremo di tornare su alcuni degli argomenti addotti dai nostri contraddittori.
Per esempio, si dice che nella Corsica tradizionale l’italiano era una lingua dominante, dando a questo termine una connotazione imperialistica: esso sarebbe stato la lingua imposta dal colonizzatore alla quale i colonizzati sarebbero stati costretti ad adeguarsi mentre le élite, per ambizione, avrebbero tradito la lingua del popolo, il còrso. Insomma si tende a suggerire che il colonizzatore ligure avrebbe imposto il proprio idioma. Ora, per chiarire le cose, diamo qui sotto un esempio di genovese:
Frasche de Mazzo
Nûvee ch’aggueitan ‘na giornâ intrega
derrè do Fasce e appenn-a ti giï l’euggio,
neigre come carbon, son in sce Zena.
Stisse grosse che e là pe fâ invexendo;
rammae pe-i rïae
che van a rebellotto a fâ mostasci in mâ.
Poi sô a coltellae
comme se-o voese
taggiâ sti fî d’argento, e molla o vento.
Solo a gattin-a
ch-a l’aveiva a sò niâ vixin a-o riâ
a ciamma e a cianze.
Ma o l’è distante o mâ
e i sò mignin no meuan
e no rispondan.
Vito Elio Petrucci
Sarà evidente per tutti che il genovese si discosta molto più del còrso dall’italiano. La verità è che la lotta tra Còrsi e Genovesi è una lotta interna a quella che si chiamava allora l’Italia, e l’italiano non era sentito dai Còrsi nè come una lingua straniera, nè come quella dei Genovesi. Infatti, i nostri antenati non hanno mai avuto un’altra lingua scritta tranne, come tutti gli Europei, il latino. Essi la pensavano così anche ai tempi di Paoli(2), e anche dopo, quando la Corsica era già diventata francese. Ciò era vero non soltanto del bastiese Viale, ma anche, tanto per far un esempio, ma sarebbero innumerevoli, di un Francesco Ottaviano Renucci, proveniente dalla Tavagna, repubblicano e filofrancese accanito(3).
D’altronde succedeva dappertutto così nei paesi italòfoni. L’italiano è diventato la lingua dei Còrsi in base ad un processo analogo a quello seguito dalle varie regioni che oggi compongono l’Italia (e la Svizzera italiana). Anzi, contrariamente, per esempio, alla Sardegna e (parzialemente) all’Italia meridionale che hanno conosciuto un periodo spagnolo (o catalano), possiamo vantare un’ininterrotta tradizione in questo campo. Non c’è nemmeno in Corsica traccia di un qualsiasi tentativo di elaborazione di un volgare illustre(4). Eppoi, tutto ciò che viene enfatizzato da alcuni: arcaicità, originalità nell’ambito delle lingue neolatine, tracce di utilizzo di una lingua locale, temporanea dipendenza da altre aree culturali, è vero non per la Corsica ma per la Sardegna e sappiamo benissimo che se i còrsi sono in grado di capire un toscano senza problemi, non possono farne altrettanto con un sardo (tranne i Galluresi che, come insegnano i linguisti, parlano infatti un dialetto di tipo còrso meridionale). Tutto ciò deve pur avere un significato.
Poi ci si rimprovera un presunto disprezzo per il còrso tale da indurci a ricacciarlo in una posizione subordinata rispetto ad un’altra lingua. E’ chiaro che neghiamo questo disprezzo, ma prima di tutto facciamo notare che la vantata promozione del còrso non ha avuto luogo. Il còrso non si è emancipato, muore. Noialtri intendiamo invece cercare i mezzi per salvarlo. Il realismo, il senso dei limiti non è disprezzo e rischiare di scomparire per vanagloria non sembra una scelta ragionevole. Dovrebbe ormai apparire evidente per tutti che il còrso non sarà mai una lingua come il francese o l’italiano. Possiamo invece tentare di salvarlo facendone qualcosa che potremmo chiamare lingua regionale(5), ma bisogna che sia mantenuto il legame con l’italiano.
D’altronde, per noi il binomio còrso-italiano non è destinato a confinare il còrso ad un livello basso, bensì a offrirgli uno sbocco verso l’alto, consentendogli di usare il vocabolario tecnico e i termini astratti di cui difetta onde evitare l’inevitabile code-switching attuale in seguito al quale molte frasi abbozzate in còrso finiscono in francese.
Adottando questa soluzione sarebbe possibile ricreare, anche tramite soggiorni linguistici in Italia per studenti e docenti, i meccanismi che mancano sempre di più e si potrebbe allora insegnare il còrso nelle sue varietà dialettali.
Perché, le varietà linguistiche del còrso sono una ricchezza solo se si rimane nell’ambito dell’uso orale o, per lo scritto, di un uso letterario. Se si dovesse, come pare si voglia, passare all’uso del còrso come lingua dell’economia, giuridica e politica, allora si andrebbe incontro ad ostacoli insormontabili. La lingua economica non tollera imprecisioni, così pure la lingua giuridica: basti pensare che varie lingue hanno conservato per secoli forme arcaiche per paura, rinnovando la forma, di ledere la sostanza. Sono lingue per le quali è importante la minima virgola. Se si volesse proseguire per questa strada si dovrebbe presto pensare a una normalizzazione autoritaria del còrso. Ora, nessuno di noi è disposto ad accettarla. Siamo tutti legati alla nostra varietà regionale e già si vocifera di centralismo e addirittura di giacobinismo aiaccino. Infatti, per secoli il comune denominatore linguistico dei Còrsi è stato l’italiano, solo con il suo ausilio si può conciliare la necessaria conservazione delle varietà locali con l’apertura sulla modernità.
Perché, ovviamente, l’insegnamento non basta: bisogna che uscendo dalla scuola lo studente trovi un mondo che lo spinga naturalmente ad esprimersi in còrso. La lingua è un fenomeno collettivo e le buone volontà individuali sono insufficienti. La maggioranza degli individui tende sempre a parlare nell’uso quotidiano la lingua che più fà commodo.
Ora, tutti ci spiegano che per motivi geografici in futuro l’economia còrsa sarà sempre più indirizzata verso l’Italia. Spetta a noi fare in modo che questa necessità storica ci serva a confortare la nostra identità. Se sapremo dare spazio all’italiano, coordinato col còrso, come lingua del lavoro, per la prima volta da decenni l’evoluzione storica giocherà a nostro favore.
L’alternativa rappresenterebbe una chiusura linguistica, culturale, geografica, economica. Non è un caso se le stesse persone che sono contrarie all’italiano sono quelle che, anche senza rendersene conto, provano timori davanti al futuro e avversano lo sviluppo di una economia moderna.
Infatti questa chiusura è il frutto di un’impostazione sbagliata. Riassumendo l’atteggiamento di molti dei fautori di una Corsica culturalemente ed economicamente autarchica si può dire che ragionano così: storicamente Bastia, Aiaccio e le città costiere non sono còrse ma italiane(6), come d’altronde, a detta di alcuni, nemmeno il Capo Còrso. Poi dall’interno della Corsica si debbono togliere i notabili(7), proseguendo su questa strada neppure gli artigiani o gli agricoltori sarebbero còrsi autentici. Rimangono praticamente a rappresentare la vera Corsica i pastori e la loro lingua. Ed è qui, come dice l’espressione italiana, che casca l’asino: perché anche i pastori toscanizzavano e imparavano a poetare in italiano o in un còrso mescolato di italiano. Come lo abbiamo più volte ricordato, è questa la vera tradizione popolare còrsa. Ce lo ricorda anche un insospettabile (perché neutrale) viaggiatore inglese dell’Ottocento, Robert Benson nei suoi Sketches of Corsica:
“La guida che mi condusse da Corte a Bastia iniziò il settimo Canto della Gerusalemme e continuò a recitare per un quarto d’ora, finché la interruppi per farle domande sulla strada che stavamo seguendo. Un altro povero còrso che ho incontrato mi ha ripetuto un intero poema di Fulvio Testi. La recitazione è durata almeno un’ora”(8).
D’altronde è stato proprio nei ceti popolari che la tradizione italiana si è mantenuta più a lungo. Non si può quindi pretendere di conservare alla nostra lingua una purezza mitica che non è mai esistita. E quando propugniamo l’integrazione del vocabolario còrso con quello italiano, non intendiamo assolutamente “sabirizzare” (9) la nostra lingua ma riprendere il suo tradizionale metodo di arricchimento.
Paul Colombani
1-Vedi A Viva Voce n.16-17-18-19.
2-Vedi A Viva Voce n.19.
3-Vedi a questo proposito le sue Memorie, pubblicate a cura di Jacques Thiers, con introduzione del medesimo, nelle quali il Renucci si dichiara insieme, senza vederci la minima contraddizione, italiano, per la lingua, la cultura e i costumi, e francese. Su questi argomenti rimane insostituibile il libro di Pascal Marchetti: LA corsophonie. Un idiome à la mer. E’ ora disponibile in libreria una nuova edizione del libro dello studioso tedesco Gerherd Rohlfs, Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia (Sansoni, 1997), con un interessante capitolo intitolato “Fra Toscana e Corsica (penetrazione toscana in Corsica)”. A chi è digiuno di questi argomenti, l’opera del Rohlfs (interessantissima e di facile lettura) farà capre quanto sia illusoria la credenza in un còrso pressoché isolato e preservato dal mare e dalle nostre montagne da ongi influsso esterno.
Inoltre, il capitolo “Italiano e toscano” renderà palese a tutti che l’italiano non è il dialetto di Firenze e che tanti fenomeni linguistici creduti tipici del còrso si ritrovano nei dialetti toscani e particolarmente in quelli della Toscana occidentale.
4-Non è nemmeno vero che il còrso sia poi così arcaico: rispetto al toscano sì, ma non rispetto al sardo e ad alcuni dialetti dell’Italia meridionale.
5-Anche se nemmeno questo termine, un po’ ambiguo, ci piace. Comunque torneremo sull’argomento.
6-Anche questa è un’idea sbagliata. Gli abitanti delle città còrse, tranne Bonifacio, sono sempre stati in gran parte d’origine isolana e i loro dialetti sono forme di còrso.
7-Traditori, imparavano a leggere e a scrivere in italiano, mandavano i loro figli a studiare nelle università italiane! Da notare comunque che coloro come Viale o Renucci che si fecero paladini della lingua e della cultura italiana nell’Ottocento possono difficilmente venire tacciati di opportunismo. Non era certo allora un modo di farsi ben volere dalle autorità. Anzi, queste ebbero tutti i motivi per incoraggiare chi propugnò un distacco da questa vecchia tradizione nostrana.
8-“My guide who conducted me from Corte to Bastia, began the 7th Canto of the Gerusalemme, and continued reciting for a quarter of an hour, until I interrupted him with inquiries about the road. Another poor Corsican I met repeated a whole poem of Fulvio Testi, the recitation of which took at least an hour”. Robert Benson. Sketches of Corsica. London. 1825. p.128.
9-Come qualcuno ce lo ha rimproverato.
Paul Colombani
29/12/2001