Opinioni

La cortina di ferro

Durante lo scorso luglio è stato presentato nella sede dell’Archivio dipartimentale dell’Alta Corsica, a Bastia, il volume Le dialogue des élites riportante il carteggio tra SalvatoreViale e Giovan Carlo Vieusseux, curato dallo studioso pisano Marco Cini.ii Sarebbe troppo lungo riassumere l’argomentazione di Cini nell’introduzione del volume alla quale rimandiamo il lettore. Ci limiteremo a sottolineare l’interesse di questo carteggio che si riferisce al tentativo di elaborazione di uno sviluppo autonomo per la Corsica, inserendola nel suo naturale ambiente geografico, economico e culturale, in armonia con le sue tradizioni.
A questo proposito si è aperto un dibattito nel pubblico sul vecchio argomento della contrapposizione tra élites e popolo. Insomma l’idea era questa: era rappresentativo il borghese e bastiese Viale della Corsica del primo ‘800. L’italiano in questo contesto era la lingua di una ristretta élite urbana e sociale o poteva dirsi lingua della Corsica?
Non occorre riprendere i termini esatti del dibattito peraltro incompleto come spesso avviene quando un argomento necessitante una risposta articolata viene affrontato così in modo estemporaneo. Ci limiteremo a riportare l’ottima risposta di Marco Cini che ha spiegato come questa tematica fosse anacronica rispetto all’epoca presa in considerazione: allora quando si parlava di popolo ci si riferiva inevitabilmente alla parte colta della popolazione. Vogliamo però andare più a fondo e dare una risposta alla luce di quanto sappiamo e pensiamo adesso.
Prima di tutto bisogna sfatare alcuni luoghi comuni e proclamare una buona volta che non si può separare l’élite dal popolo.iii Altrimenti si nega la nozione stessa di nazione. Un popolo, una nazione sono composti da varie categorie sociali. Se si decide che la lingua e la cultura popolari sono completamente estranee a quelle delle classi colte, si potrà ben dire, per esempio, che il francese della provincia, o delle classi popolari delle grandi città non ha niente in comune con quello di Balzac ma allora esiste ancora una cultura francese? Esiste una nazione francese? In Italia, a quale titolo un veneto o un calabrese possono considerarsi parte della cultura colta, medievale, toscana (in parte) di Dante? Un tale punto di vista, basato su un classismo e insieme su uno sciovinismo spicci disintegrerebbe ogni comunità linguistica e culturale. Perché insomma, si potrebbe dire, cosa c’è di comune tra un operaio, un contadino, un borghese ecc. dello stesso paese? E ancora, ogni linguaggio settoriale ha la propria lingua, la propria cultura? E’ la fine della nozione di nazione o di popolo. Al limite esistono soltanto degli individui. Il caso della Corsica è un pò diverso ma non tanto peregrino: quello di una minoranza linguistica la cui lingua naturale di cultura è diversa da quella maggioritaria del paese di appartenenza. Abbiamo avuto occasione di spiegare che la cosa non è eccezionale né di per sé negativa, anzi se ben gestita può essere una fonte di ricchezza per tutti. Ma nel nostro caso ha avuto conseguenze esiziali. Se si ragiona altrimenti si finisce come abbiamo visto nel numero 20 della rivista col negare la qualità di còrsi a quasi tutti.
Prima di tutto occorre ricordare che allora in ciò che è adesso l’Italia la stragrande maggioranza della gente si esprimeva comunemente in ciò che veniva chiamato il dialetto (ricordiamo che il re di Napoli parlava napoletano). Poi, secondo le circostanze e le necessità, si adoperava la lingua cioè l’italiano. Così succedeva in Corsica. Peraltro la nostra rivista ha già fornito abbondanti elementi per dimostrare che l’italiano non era soltanto la lingua dei notabili: oltre il fatto che era anche quella della religione e di parte della cultura popolare è d’uopo ricordare che chiunque voleva scrivere lo faceva in italiano e questa scelta veniva spontanea perché, certo, così voleva la tradizione ma soprattutto perché non c’era bisogno di imparare un’altra lingua.iv Appariva ai còrsi non come una lingua diversa ma come uno dei vari livelli della propria. Quindi l’italiano poteva dirsi in qualche modo la lingua naturale della Corsica.
Dunque, ripetiamo, si può dire che l’italiano era legittimamente considerata la lingua della Corsica perché così lo volevano la storia, la tradizione, era stata adottato da secoli dai còrsi, senza costrizione, senza che fosse stato contrastato da nessuna altra lingua, era la lingua illustre più vicina alla loro parlata naturale che d’altronde aveva informato e plasmato questa parlata, era una lingua che anche gli analfabeti imparavano facilmente. Non così il francese, perché sebbene appartenesse allo stesso ceppo latino, la maggiore distanza e la mancanza di radici storiche ne facevano una cosa estranea al paese. Con esso certo si può parlare della lingua di élites separate dal popolo. Quando poi la scuola lo ha esteso a tutti la sua diffusione ha generato un distacco traumatico, prima tra le élites e il popolo, poi tra il popolo e la sua tradizione. Se il francese, come sarebbe stato auspicabile, fosse stato introdotto accanto all’italiano invece di sostituirlo avrebbe recato qualcosa in più. Ma con la lenta messa da parte della vecchia lingua storica veniva meno la continuità verticale tra lingua popolare e lingua colta e la continuità orizzontale tra presente e passato. La prima ha interrotto la reciproca irrigazione che intercorre in un popolo tra le varie categorie sociali, la seconda ci ha tagliati dalla nostra storia. La Corsica sta morendo di questa duplice rottura. Perché un popolo ha bisogno di queste due continuità.
In questa prospettiva, contrariamente a quanto è stato sostenuto da qualcuno durante il dibattito, va valutato positivamente l’uso che si faceva dell’italiano nella poesia popolare. I poeti che toscanizzavano, coloro che conoscevano a memoria brani interi di classici italiani (non di Cervantes o di Camoëns, si badi bene, d’altronde la lontananza linguistica non lo avrebbe consentito) contribuivano in qualche modo a creare, mantenere, nutrire legami tradizionali e indispensabili nonché ad affinare il nostro idioma. Colpisce il fatto che fossero popolari e capite da tutti, anzi considerate come proprie, lingue come quelle d’Ariosto o di Marino. Era questa la linfa vitale che ci manteneva in vita. Peraltro, per rispondere a una critica che è stata fatta, non si può chiedere alla poesia popolare di un paese arcaico e rurale di abbeverarsi alle fonti più recenti della poesia moderna. Checché se ne possa pensare in assoluto, il tipo di poesia imitato ben si addiceva al gusto e al verseggiare della poesia popolare. Recisi questi legami il ramo còrso ha incominciato a deperire dietro la cortina di ferro che ci separava dal nostro ambiente naturale e storico. E’ da allora che tutto diventa incomprensibile agli stessi còrsi, che nascono le più balorde interpretazioni del nostro passato e della nostra cultura, le più strane rivendicazioni.
Mi si perdonerà di usare la chiusa di quest’articolo per toccare di sfuggita un’altro argomento, un po’ diverso sebbene affine. Abbiamo parlato della necessità di creare situazioni in cui il francese non sia più la lingua naturalmente adoperata. Ora esiste un campo in cui, l’estate, da alcuni anni il monopolio del francese viene regolarmente infranto e questo è il campo religioso. Ormai dato l’importante numero di turisti italiani, in alcune chiese di Corsica nel corso delle funzioni domenicali alcune letture vengono fatte in italiano, talvolta anche la predica viene tradotta. Ora questo c’insegna la strada da seguire. Occorerebbe che si andasse oltre il campo religioso e si creerebbero quelle situazioni in cui l’uso dell’italiano sarebbe naturale. Allora con l’ausilio dell’insegnamento dell’italiano e del còrso insieme a una presa di coscienza collettiva si potrebbe tentare sul serio di invertire l’andamento attuale.
Paul Colombani
Le dialogue des élites. Correspondance. 1829-1847. Giovan Pietro Vieusseux, Salvatore Viale, a cura di Marco Cini, con prefazione di Jacques Thiers. Ed. Albiana, Aiaccio, pp. 376.
2 Marco Cini si è laureato a Pisa nel 1995. Sta conducendo ricerche sugli scambi culturali tra la Corsica e la Toscana nell’800. Ha curato la pubblicazione del volume La nascita di un mito: Pasquale Paoli tra ‘700 e ‘800, F.Beretti, M.Cini, R.P.Coppini, M.Soler, J.Thiers, P-M.Villa, A.Volpi. Atti del Convegno del 26 settembre 1998. Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 1998. Marco Cini dirige il Centro di studi e di documentazione Salvatore Viale di Bastia.
3 Come d’altronde bisogna stare molto attenti nei confronti tra la città e la campagna. Bisognerebbe chiedersi una buona volta se l’originalità di una città come, per esempio, Bastia rispetto alle popolazioni rurali circostanti non sia da attribuire ad un’opposizione città/campagna piuttosto che ad una spesso asserita differenza etnica peraltro smentita dalla linguistica: il dialetto bastiese è còrso, né genovese, né toscano. Infatti gli stessi schemi comparativi potrebbere venire applicati ad altre regioni. Comunque la Corsica è rappresentata dai due poli: città e campagna.
4 Vedi il numero 25 di A Viva Voce.